Vaffanculo Dario, che cazzo hai combinato. Ora mi tocca scrivere che sei morto. Questa me la lego al dito. Il ciavete stavolta è per te, magnifico esemplare umano. Da qui in poi provo a raccontare qualcosa, usando gli strumenti del mestiere mio stavolta. Trovo molto facile dire cosa fosse Dario Pegoretti per me: una guida nell’ultimo strato del viaggio attraverso il mezzo bici che sto vivendo.
Trovo molto difficile spiegare CHI fosse Dario secondo me, e non per me. Stavolta la cosa rischia di essere lunga. Vorrei che fosse più lunga possibile ma la pompa del sangue gli ha fatto cilecca e quindi addio, a prescindere dalle volontà di tutti (per prima la sua, sono certo).
Per raccontare il nostro incontro bisogna tener presente alcune parecchie cose: eravamo culturalmente lontanissimi. Dario è un uomo che usa la logica e sa come usare la matematica, non per niente era un audiofilo di spessore. La sua mentalità ammette deroghe solo perché sa cos’è la norma e “come si fanno le cose”. Solo così lui può, poteva, andare oltre. Uno come me, giornalista e quindi parolaio (categoria da lui disprezzata forse più dei sapientoni di bici da tastiera), insofferente alle regole e ansioso di capire come superarle sapendo cosa cavolo fossero, ha trovato udienza. Assurdo.
Ci siamo incrociati nel 2004-2005 intervenendo sul blog Ciclistica.it, che poi sarebbe diventato un luogo reale (anzi due, oggi), di Milano. Da tempo cercavo un modo per imparare a fare telai. Appare Pegoretti, glielo chiedo, mi accoglie. Per tre volte sono andato a Caldonazzo, la terza volta mi sono fermato due settimane a lavorare da lui per i suoi telai, facendo sostanzialmente roba di contorno (mai saldature), come giusto che fosse. Piero e lui erano quelli che facevano la ciccia vera, io filettavo, pulivo, grattavo (male) dopo aver visto il Biondino che grattave (bene) il poco ottone avanzato dalla saldobrasatura, non quelle colate laviche che lascio io. Dario mi aveva già spiegato il come e il perché del far telai, in breve e per dummies, ma entrando nel vivo matematico della cosa, angoli, calcoli, si incazzava perché io so fare due più due ma a fare due meno due ci arrivo dopo qualche secondo, figurarsi seni e coseni. Una volta mi ha lanciato il taccuino (che conservo gelosamente nel mio laboratorio) in faccia, incredulo del fatto che alla mia età non capissi la geometria euclidea di base. Affranto, mi fece vedere un modo eccezionalmente semplice di tirar su un telaio dritto senza dima.
Mi stimava, credo, per altro: la mia profonda passione per la bici, la follia della ruota fissa estesa a sistema di vita e il fatto che io sapessi scrivere con facilità. “Sono un analfabeta”, diceva, lui che sapeva progettare il suo impianto hi-end e poi costruirselo per sentire la musica come voleva. Nei giorni in cui ero a Caldonazzo per il terzo stage da apprendista era in corso un problema con il suo agente Usa, e mi chiese di escogitare uno scritto per levarsi dalle balle una serie di critiche. In sostanza i clienti americani sospettavano che fosse impazzito e l’agente doveva dirgli qualcosa. Il punto era che, in uno dei suoi periodi diciamo negativi, aveva tirato fuori la Responsorium, bici apparentemente funerea, in bianco e nero, piena di frasacce e ragnatele, con riferimenti non lusinghieri alla famiglia di provenienza eccetera. Gli giravano i coglioni e aveva fatto una bici come al solito magnifica ma in qualche maniera inquietante. Se l’avessero conosciuto lo avrebbero preso per il culo e basta, ma siccome lui era lui i committenti si preoccupavano. Occorreva dire qualcosa. “Io non so scrivere, lo fai tu?”. E figurarsi se non scodinzolo dicendo “a disposizione, paròn”. Solo che, anch’io capadicazzo, ero tutto intento a rubargli il mestiere con gli occhi e pensavo a che scrivere solo la notte, mbriaco e stanco. Ci metto qualche giorno. Ma insomma alla fine escogito una cosa, grossomodo “mi dite che sono pazzo ed è vero: sono pazzo delle bici” eccetera. Dario dice ok, cancella qualche contumelia, la riscrive in inglese e la rottura di balle finisce. Questo finora non l’ho mai raccontato. La sua fiducia è stata ben riposta, credo.
Quanto ai telai, sono abbastanza certo che non ne potesse più e insieme non ne potesse fare a meno (non per il reddito: per una cosa chiamata ossessione). Quarant’anni di ricerca su “zontar oto tubi” gli andavano ormai stretti e sono abbastanza sicuro che la sua ricerca grafica era il modo per non perdere il contatto con il mezzo bici. Mezzo che, e ho parlato con diversi tealisti, non solo padroneggiava e sentiva: andava proprio oltre, con la semplicità del bambino millenario. Non ho mai sentito nessuno parlare con tanta semplicità di quel mezzo semplice e tuttavia estremamente personale quindi sempre diverso pur essendo 8 tubi giuntati. Il suo amico Richard Sachs, altro grande telaista, statunitense, non ricordo quando disse di Dario “noi stiamo imparando cose che lui non sa neanche di aver dimenticato”, una roba del genere. Per dire che gli veniva intuitivo (ma non per culo: per sapienza) fare cose che altri dovevano ancora studiare e mettere in progetto su carta. E, tanto per dire, Dario e Riccardo “Atmo”, sono credo gli unici telaisti del mondo a farsi fare una linea di tubazioni in acciaio da Columbus a loro dedicata (la serie “Pegoritchie”)
Quando uno come me chiede “ma tu, con la bici che chiedi, cosa devi farci?” è una cosa. Quando lo dice Dario, ho imparato, stai mooolto attento a cosa rispondi. “Accura”, si dice a Palermo. Alza le antenne e prova a essere all’altezza della domanda, fosse anche questa, così semplice. Mi è capitato di sentire risposte superficiali a questa domanda: se il tipo era di buon cuore la spiegazione era completa come mai io o chiunque conosca poteva dare. Se il tipo cercava di ergersi a committente quindi padrone del lavoro di Dario [censura].
Non ne poteva più e non poteva allontanarsene. Oppure diceva di non poterne più e chissà. Oppure era vero, boh. Mica facile dire. Quanto gli piaceva fare l’ignorantone in veneto stretto, quanto gli piaceva spacciarsi per ignorante. Figurarsi. A me che odio il jazz per un breve tratto me l’ha fatto amare solo spiegandomelo, e io non sono facile da fascinare. Persino quella grandissima palla di Joni Mitchell. Dopo una serata di esegesi su Jaco Pastorius non ho potuto fare a meno di comprare, al mio ritorno a Roma, un suo doppio cd. Lo sento raramente, perché m’era scomparsa l’atmosfera magica. [disclaimer: sono eterosessuale e anche Dario]. Un ignorantone, secondo lui, che però quando parlava -non solo di cose di bici- e sapeva che non poteva rilassarsi di fronte agli amici tirava fuori un’eloquenza densissima di significati da prendere continuamente appunti. E non lo dico per santificarlo ma perché è così, lui è stato così.
Non un maestro, concordo sul suo disprezzo per il termine: sicuramente una guida, un fratello maggiore sapiente. Non mi spingo sul “saggio” perché pur avendone ogni sintomo ancora non era pronto a volerlo essere, ed è morto a 62 anni, ben prima di dare il meglio di sé a tutti gli altri stando stravaccato su un’amaca in Messico o dove cavolo voleva andare (e lo voleva fare). Di sicuro un artista, un musicista della meccanica.
Adesso il mio pensiero paterno va ad Andrea, giovanissimo gigante di 2 metri che si ritrova il cognome Pegoretti e non so come stia e cosa pensi di voler fare dell’impresa del padre, e all’alter ego di Dario, Piero, che costruisce in silenzio le bici più belle del mondo e vorrei che continuasse a farlo.
Ps: grazie Dario. Anche per il tuo penultimo scherzo, il pattern grafico “Ciavete”, che tutti acclamano senza sapere che in veneto vuol dire “fottiti” ed è una tua classica presa per il culo al mondo della bici. L’ultimo scherzo invece, devo dire, non mi piace per niente.
Grazie Rotafixa!
Gli hai appena regalato 100 anni di vita nei pensieri di chi ti leggera’ .
Sto leggendo il tuo meraviglioso ricordo a Bodø, al termine di un viaggio in bici di due settimane lungo le Isole Lofoten.
Ho appreso con mestizia della scomparsa di Dario, e pur non conoscendolo di persona ne ho letto e visto a sufficienza per coglierne la profonda essenza artistica in un mondo di artigianato tecnico.
È stato un personaggio, ora è leggenda.
Grazie.
Sto leggendo il tuo meraviglioso ricordo a Bodø, al termine di un viaggio in bici di due settimane lungo le Isole Lofoten.
Ho appreso con mestizia della scomparsa di Dario, e pur non conoscendolo di persona ne ho letto e visto a sufficienza per coglierne la profonda essenza artistica in un mondo di artigianato tecnico.
È stato un personaggio, ora è leggenda.
Grazie.