Sta per iniziare la Settimana europea della mobilità (16-22 settembre), iniziativa che va avanti da 17 anni. Partecipano oltre 2.000 città europee, e lo scopo è sensibilizzare la popolazione sul proprio modo di spostarsi. Da noi la chiamano anche Settimana della mobilità sostenibile. Iniziative culturali, gare non competitive, passeggiate in bici e a piedi, seminari, convegni: c’è un po’ di tutto nei calendari degli eventi. A Milano hanno anche deciso di farne due, di Settimane, e di far leggere – a chi ancora usa la monomodalità chiamata “automobile”- la mobilità “nuova” attraverso la lente della bicicletta. Auguri a tutti e buona Settimana.
Pensando a questa quietamente disperata chiamata alla riflessione (che mi ricorda un po’ l’allenatore di pallanuoto Silvio Orlando in “Palombella rossa”, con il suo inutile e sfiatato appello “marca Budavari, marca Budavari!”) ho voluto fare un gioco con me stesso: complice la mia attuale residenza in Sicilia, ho ripercorso le strade che facevo a partire dai sei anni per andare da casa a scuola. Dalla prima alla seconda elementare in un paese piuttosto grosso della provincia di Messina, dalla terza alla quinta in un altro paese più piccolo poco distante. La prima strada, che da bambino mi sembrava lunghissima, è invece di soli 790 metri (secondo il contachilometri della bici, che però è tarato bene e quindi non mente); la seconda di poco più lunga, 820 metri, però con una forte salita quasi da subito, cosa che insieme all’orario d’ingresso assurdo contribuì al mio odio per la scuola.
In prima, a parte la cerimonia del primo giorno con i genitori, sono stato accompagnato a turno dai nonni: a piedi, naturalmente. Fu mio nonno materno a lasciarmi andare da solo inizialmente per un tratto, poi direttamente da casa. E così facevano tutti, non un solo genitore usava l’automobile per accompagnare i figli. Ok, anni ‘70, poche macchine in giro e ancora non infuocate di rabbia: si poteva tranquillamente mandare i ragazzini per strada. Però non si è capito cosa è successo nel frattempo, perlomeno io non l’ho capito. In una sola generazione, la mia, ho visto il ribaltamento della piramide sociale negli spazi pubblici.
Dalla terza alla quinta mi permettevo persino di correre, e all’uscita di perdere tempo con i miei amici in giochi e altre amenità, facendo tardi a pranzo. Mia madre era arrabbiata per il ritardo, e non preoccupata perché non mi facevo vedere: oggi è il contrario, basta un ritardo e alle madri prende una sincope, figurandosi il corpicino steso sull’asfalto.
Meno di cinquant’anni per vedere piccoli umani prigionieri della lamiera, vincolati a cinghie e separati dall’aria e dagli altri amichetti, incasellati nella relazionalità condizionata, sotto vigilanza di occhiuti e timorosi adulti. Totalmente dipendenti. Com’è successo, quando? Credo che nessuno lo sappia.
Ed eccoci improvvisamente arrivati al pigolìo, anche se benvenuto, dell’iniziativa European mobility week, idea della Ue. Ci si chiede se, per cortesia, saremmo gentilmente disposti a considerare di non muoverci in macchina in città. Il claim di quest’anno è “Multimodalità”, e ce lo spiega il ministero dell’Ambiente dal suo sito: “Per i cittadini abbracciare il concetto di multimodalità significa ripensare il modo in cui ci si muove nelle città e avere la volontà di sperimentare nuove forme di mobilità, per le amministrazioni richiede la volontà di supportare metodi di trasporto alternativi”.
Ho imparato ad andare a piedi da solo grazie a mio nonno. Ora non bastano neanche l’Unione europea, i governi, i sindaci. Non credo di essere il solo a definirlo “regresso”.