Da molti anni sento, come tutti voi, definire l’”ideologia” -qualsiasi essa sia- come un insulto o qualcosa di cui non solo vergognarsi ma anche chiedere scusa pubblicamente per averla. Un argomento generalmente brandito da gente di destra quando ero ragazzo e dominava una certa aria di sinistra più o meno ossigenata. Recentemente l’insulto è diventato di dominio ampio e viene agitato un po’ da chiunque. Personalmente sento, con istinto animale, che le ideologie siano un bene: almeno orizzontano e danno una direzione allo stare in vita.
Ne ho avuto una sorprendente conferma leggendo uno studio dell’agosto scorso focalizzato sulle motivazioni della dipendenza dall’automobile che la nostra specie ha sviluppato in qualche manciata di decenni. Il titolo è “The political economy of car dependence: A systems of provision approach“ ed è stato pubblicato da Energy Research & Social Science, rivista di scienze sociali nata nel 2014 e diretta da un professore di Politica energetica dell’Università del Sussex, Benjamin Sovacool. Trovate tutti i riferimenti in rete. La ricerca, agghiacciante e che citerò ampiamente, è firmata da quattro ricercatori di università differenti tra cui l’italiano Giulio Mattioli.
Lo studio mette in connessione cinque aspetti: industria automotive, infrastrutture dedicate, espansione urbana, tpl e infine “la cultura dell’automobile”. L’esame dei primi quattro punti, impietoso nella sua semplice accusa al sistema automobile, è acqua fresca rispetto ai risvolti “mentali” di quella che è stata una vera invasione di spazio, tempo, economia e vivibilità ai nostri tempi. “In tutto il mondo le diverse istituzioni culturali collegate all’industria dell’auto sono riuscite ad attribuire all’automobile uno stato iconico. Ciò ha contribuito significativamente a consolidare il sistema automobile. Tali istituzioni culturali sono in grado di condizionare profondamente i comportamenti e le scelte delle persone”. Ed è solo l’inizio. Non avere l’auto, sintetizzo, viene coscientemente spinto a essere percepito come una caduta nella scala sociale, con l’obiettivo di “segmentare la popolazione” in base a schemi di riferimento, da cui derivano adorazione di oggetti diversi come pick-up, Suv e decappottabili. Ciò va avanti da così tanto tempo che ha conferito al sistema auto una velocità inerziale che potrebbe persino fare a meno della pubblicità, si legge.
Un quadro deprimente che raggiunge un’ulteriore vetta: i ricercatori hanno individuato una modalità precisa per innestare nella collettività questo fideismo, e cioé l’assenza di qualsiasi fideismo: ”il sistema automobile trae un enorme beneficio dalla creazione di un contesto decisionale apolitico, nel quale le scelte a favore delle case automobilistiche sono presentate come sinonimo di crescita economica e tutela dell’occupazione. […] Se di destra, si farà maggiormente leva sui concetti di crescita, benessere e libertà individuale, se di sinistra su quelli dell’uguaglianza delle condizioni di trasporto e accesso ai luoghi di lavoro, promozione di una società più inclusiva, etc. L’importante è che questi argomenti vengano presentati in modo tecnico, obiettivo e dunque apolitico”.
E qui, senza scomodare Gramsci, vengo al punto: sostengo da sempre che per sfuggire a una sudditanza come quella sopra delineata occorra costruire e applicare un diverso sistema valoriale, detto ideologia. Magari senza armi ma due ceffoni starebbero bene. Ora abbiamo anche una base scientifica per darli serenamente.