Rebellin: una lettera aperta mai spedita da noi giornalisti

Ho immaginato che questa lettera aperta dei giornalisti che si occupano di bicicletta in senso lato fosse una necessità urgente, dopo l’orribile morte di Davide Rebellin a causa di un camionista criminale. Avrete visto, nelle foto che girano, la bici variamente piegata come un foglio A4, un amico della zona mi ha scritto che il corpo era conciato di conseguenza. Di seguito la lettera.

“Nel nostro quotidiano lavoro di giornalisti e appassionati della bicicletta a 360 gradi -sport, viaggio, passeggiata, trasporto individuale quotidiano- dobbiamo confrontarci sia per dovere sia per effettivo interesse con la pochezza culturale della società italiana di fronte alle morti in strada.

Denunciamo in particolare la miopia e la mancata comprensione delle dinamiche trasportistiche moderne di chi si occupa professionalmente di ciclismo, a ogni livello e in qualsiasi istituzione: a ogni morto ucciso in strada dai mezzi pesanti assistiamo sempre alla solita giaculatoria “bisogna rispettarsi tutti, automobilisti e ciclisti”, “servono impianti dedicati”, “il governo che fa”.

In parte è buttare la palla in tribuna, in parte è non vedere lo stato abietto delle strade italiane, territorio incontrastato dei predatori a 4 ruote che falciano giovani e meno giovani vite, persone ignote o campioni come ieri Davide Rebellin e l’altro ieri Michele Scarponi.

Noi siamo parte del sistema dell’informazione e sappiamo come va: grande emozione sul momento, in attesa di rimuovere il prima possibile l’orrore dalle nostre vite quotidiane, e continuare a vivere le proprie vite nell’eterno tran tran di invadere, in perfetta solitudine ciascuno nel suo abitacolo, le strade delle nostre città e della nostra Italia, ultima nella sicurezza stradale e prima per densità di mezzi di trasporto motorizzati in Europa.

Nessuno dei protagonisti del dibattito pubblico osa indicare la motorizzazione di massa, cresciuta in modo sia incontrollato sia incentivato da industria e amministrazione, come causa prima delle morti in strada. Si evoca la fatalità e il destino cinico e baro.

Ci serve una decisa inversione di marcia ma l’arretratezza culturale italiana è palese, e vogliamo denunciarla.

Non esistono le strade killer, killer è chi guida e la strada è un nastro inerte.

Non esiste il rispetto per chi non ha rispetto di te e lo dimostra quotidianamente, fino all’esito scontato.

Non può esistere equiparazione tra le presenze su strada e la rimozione forse interessata (quanti sono gli sponsor dell’automotive nel mondo sportivo?) della fonte primaria di ciò che sta uccidendo il meglio dello sport italiano e che non ne consente la crescita perché nessun genitore farebbe fare oggi ciclismo su strada ai propri figli.

Come operatori dell’informazione, osservatori e propagatori di cultura ciclistica lanciamo l’allarme per ciò che è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere: un cambiamento reale passa necessariamente dalla presa d’atto di un salto culturale. Che le istituzioni sportive, amministrative e italiane attuali di ogni genere non sono, palesemente, in grado o di comprendere o, nei rari casi, di portare avanti con il necessario vigore.”

Questa lettera non è ancora apparsa una necessità. Il me bambino non capisce il perché.
Il me adulto, italiano, invece sì. Troppo denso il carcinoma automobilistico in ogni aspetto della vita italiana. Troppo vasta la colonizzazione delle anime, dell’immaginario, degli interessi economici, del falso assioma che appartiene anche alla sinistra operaista “industria auto uguale lavoro, ricchezza”.
Il me adulto ascolta il bimbo e si vergogna profondamente dello stato abietto di questo paese.

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