Avrete tutti fatto caso che la morte di Cristina a Milano, morta questo aprile sotto le ruote di una betoniera in curva, ricalca la stessa dinamica dell’altra orribile fine della sua coetanea Veronica, sempre a Milano a febbraio scorso. I ciclisti milanesi, instancabili quanto impotenti e senza la forza di dare fuoco a un qualsiasi edificio pubblico per ovvi motivi, hanno manifestato l’ennesima volta. Ne parlo perché mi ha colpito l’intervento di uno dei compagni della locale Critical Mass, Angelo: “Almeno abbiate il coraggio di vietare le biciclette in città, se non siete capaci di intervenire per proteggerci”.
Per chi non è un cicloattivista, come invece lo è Angelo, vorrei sottolineare che questa frase è terrificante nella sua innocuità, e deve risultare piacevole solo a un qualunque presidente dell’Aci locale di ogni territorio. Per chi invece segue queste vicende come me e mi auguro un numero crescente di persone qui si è toccato un limite -anche piuttosto pericoloso se fossimo francesi-: l’utilizzo sempre peggiore delle nostre strade ci sta portando al nucleo della questione, ovvero è del tutto evidente l’impossibilità di convivenza in strada della mobilità attuale con quella del futuro.
Intendiamoci, i mezzi pesanti da lavoro in città non sono come le auto private per lo spostamento personale da quasi 700 persone su mille in Italia: hanno per ora una loro funzione, a parametri invariati. E non è la velocità in questo caso a uccidere ma l’ingombro e la presenza degli angoli morti di manovra. Cioé un altro parametro con cui chi ha scelto di muoversi in bici deve fare i contro a ogni dannato metro che percorre. Non bastavano i milioni di matti che corrono solitari in città nelle loro auto private.
“Vietare le biciclette”: ma non si accorge nessuno di quanta disperazione ci sia in questa frase? A me pare impossibile, e infatti credo che -siccome è stata sentita bene dentro palazzo Marino- sia stata accolta con il consueto sonorissimo niente di fatto.
Perché questa ormai risulta essere la cifra degli amministratori moderni italiani: non scegliere. Mai. Qualsiasi cosa accada. Soprattutto se porta fatica, sottrae consenso nell’immediato (leggi: in corso di mandato), dunque non conviene. Lo vedo bene a Roma, dove il sindaco, da noi chiamato “il cartonato” per la sua bidimensionalità, non prende posizione se non sull’inceneritore o su circenses come lo stadio, giochi vari tipo il Giubileo, l’Expo.
Apro il dizionario alla voce “governare”. L’etimo, mi ricorda Treccani, viene da “gubernum”, il timone della nave in latino, da cui governo come lo conosciamo noi, ed è il significato più antico. So andare a mare e l’ultima cosa che va fatta in barca, a parte abbandonarla se affonda, è lasciare il timone libero senza alcuno al governo. Apro quindi il Guglielmotti, vocabolario marittimo: “Reggere, Aver cura, Provvedere col pensiero e coll’opera ai bisogni presenti e futuri di ciò che è sotto la sua custodia o giurisdizione”.
A me sembra che oggi a ogni timone italiano ci sia il “nocchier della livida palude”, ovvero Caronte. E allora vietate le bici e fateci traghettare agl’Inferi, come già avviene. Fate ridere il mondo, su.