Il “boomber” e il tranviere: macché mistero, solo folle velocità

Alcuni giornali, come la Repubblica nella cronaca di Roma, hanno titolato “Il giallo del semaforo”, Roma Today lo definisce mistero. Lo scontro di domenica mattina presto tra il suv di Ciro Immobile e il tram 19 sul ponte Matteotti a Roma, che scavalca il Tevere andando da Flaminio a Prati, sta facendo discutere questa dannata città. La macchina del capitano della Lazio è distrutta davanti, il tram è stato deragliato con 40° di scostamento, danni ne ha ricevuto pochi ma circola da lunedì la foto del poveretto alla guida del tram, un signore di 55 anni, svenuto per la paura o il trauma, vai a sapere, riverso nella cabina di guida (lì per lì invece non se l’era filato nessuno, tutti preoccupati del bomber, anzi boomber visto il casino fatto, della Lazio). Per il calciatore costola fratturata e trauma alla colonna vertebrale, le due figliolette con due microfratture e immagino tanto spavento, per il tranviere prognosi di sette giorni, danni non pervenuti. Il calciatore sostiene di essere passato col verde, lo stesso fa il lavoratore Atac. I cardatori di lana caprina hanno avuto da subito il loro da fare per scusare il campione. Lo svacco calcistico si è oltretutto messo di mezzo: non ti puoi azzardare a commentare che salta su qualcuno e ti dà del romanista che odia i laziali, una pena infinita. Illuminante un fondo agiografico di Marco Lodoli, tifosissimo e dunque un piagnisteo.

Il suv di Immobile (tal Defender della Land Rover,) veniva dal semaforo di lungotevere delle Armi, dove la vista è sgombra. Il tram veniva da piazza delle Cinque giornate, partito dalla fermata a ridosso del suo semaforo. La pagina Facebook del blog CityRailways, animato dall’ingegnere e urbanista Andrea Spinosa, ha pubblicato in tempo quasi reale, domenica stessa, una valutazione misurata di quanto accaduto usando le formule dell’impulso, roba astrusa che non capisco ma a quanto pare efficace. CityRailways è risalito alla velocità del Suv considerando essenzialmente tre fattori: il peso dei due mezzi (2.600 kg il suv, 30.500 più 25 persone a bordo su due carrelli il tram) e l’angolo di spostamento del tram, appunto 40°. A calcoli fatti il Suv ha colpito a 79,7 km/h. Dal semaforo sul lungotevere al luogo dell’impatto ci sono una trentina di metri.

In sintesi: dal semaforo al botto la distanza è poca, la vista è sgombra, le valutazioni sono facili. Mi sono fatto un’idea di come sia andata, dopo un sopralluogo lunedì scorso. Non ci sono andato apposta, passavo da quelle parti e ho pensato di fare un salto e verificare di prima mano le fasi semaforiche e le dinamiche dei vari mezzi.

Se i calcoli di CityRailways sono corretti non c’è modo di raggiungere gli 80 all’ora da fermo al semaforo con quel mezzo, quasi 100km/h in 30 metri non credo sia possibile con mezzi omologati per la circolazione stradale, dunque non era fermo; con il tram fermo al semaforo è dal lungotevere che scorrono i mezzi e quando scatta il via libera per il tram (barra luminosa bianca verticale) si deve fermare il lungotevere: per qualche tempo, come uso a roma, le macchine sul lungotevere continuano invece a passare, il solito fenomeno dell’accelerazione al giallo, ma non credo che ci sia il tempo per il tram di occupare l’incrocio durante il passaggio abusivo; lo scontro, dicono le cronache, si è verificato domenica mattina alle 8,15: è plausibile che le strade fossero vuote o quasi.

La mia opinione è che il suvvista abbia accelerato al giallo e bruciato il rosso, forse stimando che non passasse nessuno. A questa opinione si stanno lentamente avvicinando le cronache locali, ma col bilancino e sempre dando spazio all’avvocato del calciatore, non a quello del lavoratore.

Per ora il dibattito è sulle condizioni del calciatore, il suo stop per almeno due turni di campionato, lo spavento, i problemi che porta alla squadra la perdita temporanea di un pezzo così pregiato tornato recentemente al gol dopo un periodo a secco. I Tg locali sottolineano che “se fosse stato su un’auto più piccola i danni sarebbero stati ben maggiori”, mostrando la consueta cecità e anzi alimentando la spirale perversa macchina grande/grande sicurezza (per chi è dentro, ovvio). E ignorando, al solito, il fattore velocità moltiplicato peso.

Per noi moderni frequentatori dei percorsi urbani è ovvio, senza fare sopralluoghi o studiare le arcane formule di CityRailways, che quel famoso personaggio corresse come tutti in Italia, quindi come un matto, nella solita indifferenza e acquiescenza collettiva.

A me personalmente rimane in testa l’immagine del macchinista svenuto dentro la cabina, un qualsiasi lavoratore di cui non frega niente a nessuno.

Sì: viaggiare

Non evasione ma immersione: questo è il senso profondo del viaggio in bici, che è radicalmente diverso da quasi ogni altro viaggio. Ne ho conoscenza diretta perché non solo viaggio in bici ma lo faccio anche via mare, a vela, da decenni. Una dimensione radicalmente differente da quella terrestre di superficie, e per questo nel viaggio in bici trovo una sorprendente assurdità: nel mio modo di interpretarlo il girovagare in bici è un’esperienza sensoriale intimamente legata alla parte inorganica del mondo.

Può naturalmente sembrare assurdo ma, a differenza dell’immersione nel pozzo antropico del mondo se viaggio con altri mezzi, mentre lo faccio in bici aria e luce sono esaltati dall’odore della strada, certamente mischiato con quello della vegetazione o dell’impronta antropica circostanti. Ma riesco a distinguere, grazie alla bici. Il percorso in altura lascia sentire la traspirazione delle pietre nel corso delle ore e raggiunge il mio olfatto, così come quello desertico -che prediligo- dove l’odore minerale è aspro, secco, totalmente inanimato, senza traccia del bellissimo verde che è stato il primo abitante di questo pianeta.

Così non è a mare, dove non so perché, o forse per il mio esserci cresciuto/formato accanto, sono assolutamente convinto di viaggiare sulla pelle di un essere organico immenso (a torto, dice la ragione; a ragione, dice l’animale che sono. Dualismo ormai inestricabile e pazienza, va bene così).

Il viaggio come fuga dalla quotidianità si chiama turismo, non è quello che mi interessa. Mettere la ruota anteriore fuori dal portone significa invece anelare al ritorno nella stranissima condizione di non esserne preoccupati più di tanto, o perlomeno questo è uno dei capisaldi del viaggio in bici. “Avventura”, nei nostri immaturi tempi, significa fare qualcosa di speciale da raccontare agli amici se se ne esce interi; ma viene dal latino “ad ventura”, andare verso le cose che accadranno. Non è ricerca di guai da cui sbrogliarsi ma consapevolezza piena del futuro come dimensione totalmente ignota, parzialmente prevedibile ma sicuramente aperta a svolte imprevedibili.
Viaggio in bici come ad ventura significa per me, nel suo livello più lucido ed esperito, andare avanti come un bimbo nel mondo, sempre meravigliato e sempre fiducioso, E’ nel nostro quotidiano che siamo pronti a essere delusi, non certo nella dimensione del viaggio, aperta a tutto compreso la delusione.

E dunque la prima domanda, dopo tutto il pippone filosofico intimistico: qual è il numero perfetto di viaggiatori in bici? La mia risposta, quella che neanche mi dò più, tanto è un lato assodato al pari della forza di gravità, è “1”. Il viaggio in bici lo fai da solo, e siete pure in troppi a dire il vero. Quando ne parlo con altri mi nascondo dietro le scuse plausibili standard, ovvero “ognuno ha il suo ritmo, può succedere di litigare per inezie, la fatica porta i nervi a fior di pelle”.

Tutte cazzate. Ma come faccio a dire “voglio stare con me, immerso nella parte inorganica mentre sono ancora in vita”? Ne partirebbero discussioni anche potenzialmente offensive, lascio perdere dunque.

Per altri però -e li capisco- l’immersione non è tale se non condivisa.
Esiste un testo molto lontano da chi si interessa di bici che spesso cito a chi ha questo tipo di attitudine, ed è “Eolie di vento e di fuoco” di Gin Racheli, scrittrice ora non più tra noi, che però ha avuto una formazione intensamente sociale, passando la sua prima vita come dirigente industriale e poi attivandosi in un gruppo piuttosto fricchettone (new age anni ’70), l’Unione Coscienza di Milano. Per Racheli la “vacanza” intesa nel senso latino di otium va declinata come spazio di coltivazione interiore di gruppo e al contempo coltivazione ricreativa di sé. Diversi viaggi di gruppo alle Eolie li hanno spinti ad approfondire sempre più quella dimensione, e ne è uscito uno dei più bei libri di viaggio in italiano che io conosca. Credo che si trovi ancora nella collezione Biblioteca del mare di Mursia, tengo la mia copia in grandissimo conto.

Mi allontano da lei, anche se mi ha insegnato tanto. Trovo necessario sentir scorrere le ruote sottili del nostro mezzo, inalare l’odore della Terra, che è in dualismo con il Mare. E imparare nuovamente a orientarsi, nutrirsi, difendersi dal caldo e dal freddo, sentire il lento esaurimento delle forze e fermarsi prima della fine di queste.

Il viaggio in bici è un atto carnale e minerale insieme.

Meccanica di base: la lubrificazione

Sempre lungo la linea del back to basics rivolto a chi utilizza la bici in città da poco o magari anche da tanto ma vuole dare una ripassata, vorrei parlare di lubrificazione e di pochi altri principi generali: il primo tra questi è ricordare sempre, in ogni istante di cura del mezzo, che quella della bicicletta è una meccanica semplice. Sono consapevole di ripetermi ma credo che sia una bussola da tenere in gran conto.

Sono tre gli elementi in movimento mentre la bici percorre la strada: gli assi del mozzo e quello del movimento centrale; un quarto non ha un andamento rotatorio ma ugualmente si muove, e si tratta delle maglie della catena. Lubrificare questi elementi è importante: un attrito tendente a zero significa meno fatica nell’avanzamento. In commercio ci sono diversi lubrificanti anche specializzati per effetto molto efficienti ma abbastanza costosi. Io li uso perché privilegio allontanare l’attrito, ma per lavori di base e con poca spesa la combinazione migliore è aggiungere un po’ d’olio minerale alla benzina. Bisognerebbe evitare il gasolio: contiene paraffina che s’impasta magnificamente con le polveri sottili di cui le nostre città sono piene. In diversi lo usano ma bisogna ripetere periodicamente l’operazione di ripulitura e lubrificazione.

Benzina e olio insieme hanno un effetto sia ripulente sia lubrificante, l’evaporazione della benzina lascia un sottile velo d’olio minerale penetrato nei meccanismi grazie al solvente benzina e meno soggetto della paraffina a raccogliere rumenta. La mistura si passa con un  pennello, avendo cura di non toccare i meccanismi frenanti. Una volta finita l’operazione è bene passare leggermente un panno, soprattutto sulla catena, per evitare gli eccessi di lubrificante che possono andare qui e lì mentre si pedala. Inutile dire che il costo è irrisorio, e inoltre offre anche a noi la soddisfazione di recarci dal benzinaio almeno una volta l’anno come se fossimo italiani standard.

Un altro elemento mobile sono i fili dei freni e in genere il sistema frenante: per i fili, senza doverli smontare, si possono usare i tanti spray sbloccanti in commercio, che invece non vanno usati su mozzi e catena perché tendono a seccare:si spruzza piano dentro le guaine del filo e si agisce sulle leve per far entrare meglio lo spary. Lubrificare con la massima attenzione le parti mobili di freni per non mandare lubrificante sui pattini dei freni o sui cerchi, cosa che vanificherebbe la frenata con le conseguenze che è facile immaginare. Magari non ci crederete ma c’è gente che pensa di lubrificare i dischi dei freni per farli scorrere meglio.

In un ambiente ideale mentre una bici è in marcia l’unico suono che viene prodotto è il fruscio dei copertoncini sul fondo stradale: ogni altro rumore va eliminato per ottenere il massimo del piacere nell’andare. In questi casi il principio generale è prima ascoltare, poi immaginare l’origine, quindi osservare la parte da cui si stima provenga il rumore molesto. L’osservazione delle parti della bici è fondamentale nell’individuazione del problema.

Se si fa più fatica del solito ad avanzare, o si sente un fruscio, probabilmente qualcosa tocca da qualche parte: si scende dal sellino e si avanza spingendo la bici a piedi osservando se la gomma tocca il telaio, se un freno tocca il cerchio. Se non lo si vede immediatamente sarà meglio mettere sottosopra la bici poggiandola in terra con sellino e manubrio e osservare più da vicino.

Meccanica di base: la lubrificazione

Sempre lungo la linea del back to basics rivolto a chi utilizza la bici in città da poco o magari anche da tanto ma vuole dare una ripassata, vorrei parlare di lubrificazione e di pochi altri principi generali: il primo tra questi è ricordare sempre, in ogni istante di cura del mezzo, che quella della bicicletta è una meccanica semplice. Sono consapevole di ripetermi ma credo che sia una bussola da tenere in gran conto.

Sono tre gli elementi in movimento mentre la bici percorre la strada: gli assi del mozzo e quello del movimento centrale; un quarto non ha un andamento rotatorio ma ugualmente si muove, e si tratta delle maglie della catena. Lubrificare questi elementi è importante: un attrito tendente a zero significa meno fatica nell’avanzamento. In commercio ci sono diversi lubrificanti anche specializzati per effetto molto efficienti ma abbastanza costosi. Io li uso perché privilegio allontanare l’attrito, ma per lavori di base e con poca spesa la combinazione migliore è aggiungere un po’ d’olio minerale alla benzina. Bisognerebbe evitare il gasolio: contiene paraffina che s’impasta magnificamente con le polveri sottili di cui le nostre città sono piene. In diversi lo usano ma bisogna ripetere periodicamente l’operazione di ripulitura e lubrificazione.

Benzina e olio insieme hanno un effetto sia ripulente sia lubrificante, l’evaporazione della benzina lascia un sottile velo d’olio minerale penetrato nei meccanismi grazie al solvente benzina e meno soggetto della paraffina a raccogliere rumenta. La mistura si passa con un  pennello, avendo cura di non toccare i meccanismi frenanti. Una volta finita l’operazione è bene passare leggermente un panno, soprattutto sulla catena, per evitare gli eccessi di lubrificante che possono andare qui e lì mentre si pedala. Inutile dire che il costo è irrisorio, e inoltre offre anche a noi la soddisfazione di recarci dal benzinaio almeno una volta l’anno come se fossimo italiani standard.

Un altro elemento mobile sono i fili dei freni e in genere il sistema frenante: per i fili, senza doverli smontare, si possono usare i tanti spray sbloccanti in commercio, che invece non vanno usati su mozzi e catena perché tendono a seccare:si spruzza piano dentro le guaine del filo e si agisce sulle leve per far entrare meglio lo spary. Lubrificare con la massima attenzione le parti mobili di freni per non mandare lubrificante sui pattini dei freni o sui cerchi, cosa che vanificherebbe la frenata con le conseguenze che è facile immaginare. Magari non ci crederete ma c’è gente che pensa di lubrificare i dischi dei freni per farli scorrere meglio.

In un ambiente ideale mentre una bici è in marcia l’unico suono che viene prodotto è il fruscio dei copertoncini sul fondo stradale: ogni altro rumore va eliminato per ottenere il massimo del piacere nell’andare. In questi casi il principio generale è prima ascoltare, poi immaginare l’origine, quindi osservare la parte da cui si stima provenga il rumore molesto. L’osservazione delle parti della bici è fondamentale nell’individuazione del problema.

Se si fa più fatica del solito ad avanzare, o si sente un fruscio, probabilmente qualcosa tocca da qualche parte: si scende dal sellino e si avanza spingendo la bici a piedi osservando se la gomma tocca il telaio, se un freno tocca il cerchio. Se non lo si vede immediatamente sarà meglio mettere sottosopra la bici poggiandola in terra con sellino e manubrio e osservare più da vicino.

Come si sta in sella: una guida pratica

Ogni tanto mi stufo di denunciare le storture stradali italiane e mi concentro sulla parte bella del muoversi in bicicletta. Mi i è venuto quindi in mente di dare il via al podcast “La città delle biciclette (su Spotify, Anchor, Podbean) che ha l’obiettivo di aiutare i nuovi utenti della bici a muoversi meglio in città, serenamente e perché no anche con gusto: il gioco è proprio questo, muoversi in bicicletta è bello e divertente, un aspetto che non viene abbastanza sottolineato. “La malinconia non è prevista in bici”,ha detto qualcuno. In una puntata -che ripropongo qui- parlo per esempio di come si sta in bici, partendo dai principi generali: non andrebbe mai dimenticato che la bici è un mezzo semplice. Il nostro non è un mezzo come gli altri: se ci fate caso, per esempio le motociclette non hanno lo stesso modello con diverse misure: se sei alto puoi acquistare modelli alti, se basso modelli bassi, ma nulla vieta ai bassi di andare su enormi enduro o agli alti di circolare su motociclettine. Questo perché il nostro mezzo ha in noi il suo motore e l’ergonomia è fondamentale.

Per questo i ciclisti esperti criticano quelli che lasciano bassa la sella. Chi lo fa è perché si sente più sicuro nel poggiare i piedi a terra abbastanza di piatto se non del tutto, mentre la corretta altezza della sella ti consente di poggiare solo le punte. Però è importante, perché con la sella bassa si pedala scorrettamente e dopo poco fanno male le ginocchia, oltre a utilizzare l’energia di pochi muscoli mentre altri rimangono inerti; oltretutto ce li trasciniamo dietro senza che facciano il lavoro a cui sono destinati, è peso inutile. Con l’altezza giusta, che ovviamente cambia da corpo a corpo, quando il pedale è in basso la gamba deve essere leggermente flessa, in modo da non sollecitare l’articolazione del ginocchio.

Il nostro contatto con la bici si verifica in tre punti: sella, manubrio e pedali. Sull’importanza di una buona sella siamo d’accordo tutti ma finora non si è riusciti a escogitare un modo per acquistare al primo colpo la sella perfetta per sé. Dovrete fare le vostre prove, non si scappa.

I pedali devono avere la caratteristica di non far scivolare le suole, una cosa che ti può mettere in difficolta nei momenti peggiori, per esempio quando piove o quando devi scappare velocemente da un momento di confusione stradale. Alcuni usano gli attacchi, non facili da usare per i principianti e anche costosi, altri i pedali cosiddetti flat, che hanno una presa molto forte e non hanno bisogno di scarpe specifiche. In ogni caso devono avere un grip il più possibile efficace, anche se alla lunga tendono a rovinare un po’ le suole. E importante che la pedalata si svolga mettendo al centro del pedale la parte del piede da cui partono le dita, così da usare al completo i muscoli della gamba. La famosa “pedalata di tallone” annulla completamente l’azione del polpaccio e va evitata: si verifica quando la sella è troppo bassa. Per le manopole o il nastro da manubrio le scelte diventano personali perché si tratta di elementi che danno anche uno stile alla bici, quindi fate un po’ come vi pare purché non siano scivolosi. Importante anche afferrare saldamente il manubrio o la piega da corsa: sembra banale ma vedo troppe persone che non usano l’opponibilità del pollice alle altre dita. Lo sguardo deve essere dritto e periferico: guardare l’orizzonte migliora l’equilibrio, mentre non focalizzarsi su qualcosa o qualcuno lascia intravedere movimenti circostanti che potrebbero crearci dei problemi.

Come si sta in sella: una guida pratica

Ogni tanto mi stufo di denunciare le storture stradali italiane e mi concentro sulla parte bella del muoversi in bicicletta. Mi i è venuto quindi in mente di dare il via al podcast “La città delle biciclette (su Spotify, Anchor, Podbean) che ha l’obiettivo di aiutare i nuovi utenti della bici a muoversi meglio in città, serenamente e perché no anche con gusto: il gioco è proprio questo, muoversi in bicicletta è bello e divertente, un aspetto che non viene abbastanza sottolineato. “La malinconia non è prevista in bici”,ha detto qualcuno. In una puntata -che ripropongo qui- parlo per esempio di come si sta in bici, partendo dai principi generali: non andrebbe mai dimenticato che la bici è un mezzo semplice. Il nostro non è un mezzo come gli altri: se ci fate caso, per esempio le motociclette non hanno lo stesso modello con diverse misure: se sei alto puoi acquistare modelli alti, se basso modelli bassi, ma nulla vieta ai bassi di andare su enormi enduro o agli alti di circolare su motociclettine. Questo perché il nostro mezzo ha in noi il suo motore e l’ergonomia è fondamentale.

Per questo i ciclisti esperti criticano quelli che lasciano bassa la sella. Chi lo fa è perché si sente più sicuro nel poggiare i piedi a terra abbastanza di piatto se non del tutto, mentre la corretta altezza della sella ti consente di poggiare solo le punte. Però è importante, perché con la sella bassa si pedala scorrettamente e dopo poco fanno male le ginocchia, oltre a utilizzare l’energia di pochi muscoli mentre altri rimangono inerti; oltretutto ce li trasciniamo dietro senza che facciano il lavoro a cui sono destinati, è peso inutile. Con l’altezza giusta, che ovviamente cambia da corpo a corpo, quando il pedale è in basso la gamba deve essere leggermente flessa, in modo da non sollecitare l’articolazione del ginocchio.

Il nostro contatto con la bici si verifica in tre punti: sella, manubrio e pedali. Sull’importanza di una buona sella siamo d’accordo tutti ma finora non si è riusciti a escogitare un modo per acquistare al primo colpo la sella perfetta per sé. Dovrete fare le vostre prove, non si scappa.

I pedali devono avere la caratteristica di non far scivolare le suole, una cosa che ti può mettere in difficolta nei momenti peggiori, per esempio quando piove o quando devi scappare velocemente da un momento di confusione stradale. Alcuni usano gli attacchi, non facili da usare per i principianti e anche costosi, altri i pedali cosiddetti flat, che hanno una presa molto forte e non hanno bisogno di scarpe specifiche. In ogni caso devono avere un grip il più possibile efficace, anche se alla lunga tendono a rovinare un po’ le suole. E importante che la pedalata si svolga mettendo al centro del pedale la parte del piede da cui partono le dita, così da usare al completo i muscoli della gamba. La famosa “pedalata di tallone” annulla completamente l’azione del polpaccio e va evitata: si verifica quando la sella è troppo bassa. Per le manopole o il nastro da manubrio le scelte diventano personali perché si tratta di elementi che danno anche uno stile alla bici, quindi fate un po’ come vi pare purché non siano scivolosi. Importante anche afferrare saldamente il manubrio o la piega da corsa: sembra banale ma vedo troppe persone che non usano l’opponibilità del pollice alle altre dita. Lo sguardo deve essere dritto e periferico: guardare l’orizzonte migliora l’equilibrio, mentre non focalizzarsi su qualcosa o qualcuno lascia intravedere movimenti circostanti che potrebbero crearci dei problemi.

La stagionale ruota del criceto*

Ormai ho una sola certezza nella mia vita di cicloattivista: a ogni allarme via stampa sulla mortalità stradale per i ciclisti salta fuori sempre l’idiozia “rendiamo obbligatorio il casco”. Succede ogni anno, più o meno in primavera, quando gli organi d’informazione, al pari di mondo vegetale o animale, stiracchia le proprie membra e si accorge che c’è gente che si muove in bici. Il passo verso l’allarme è breve: c’è gente in bici dunque rischia. La cosa viene dipinta con gli stessi toni, sempre, e con i medesimi accenti e inflessioni della descrizione di un gruppo di malcapitati in una savana ostile. Nella savana ci sono bestie grosse e pericolose (sottotesto: che ci sei andato a fare, sciagurato?), chi ci si inoltra lo fa “a suo rischio e pericolo” (cit. Dario Esposito quando era assessore a Roma, uno dei killer politici di Ignazio Marino), è in buona sostanza un deficiente che deve essere messo in grado di non nuocere a sé stesso.

L’ultima occasione è stato un rapporto dell’Asaps, amici polizia stradale, ripreso con grande enfasi dalla newsletter di Stellantis, volgarmente “La Repubblica”. Salvini. Ed eccoci ripiombati nella solita ruota di criceto annuale.

Attenzione: non lo dice l’Asaps ma il responsabile sicurezza della Federciclismo, Roberto Sgalla. Sgalla è stato prefetto di polizia prima di andare in pensione, e tra le sue responsabilità in fine carriera c’era anche quella della Polstrada. Salvini. Per noi addetti ai lavori non è una novità: da anni quel signore dice queste cose, regolarmente spernacchiato. Né è tanto grave che la newsletter le riprenda. Stavolta è accaduto qualcosa di diverso, e a mia memoria mai accaduto prima.

Il salto grave è questo: se finora a farsi spazio sui giornali erano dei peones parlamentari che nessuno ha mai sentito nominare, stavolta è stato un sindaco. ministro. Cioé colui che per sua natura deve assicurare che nella sua città suo paese non si svolgano efferatezze stradali. Niente di più facile, per un qualsiasi sindaco ministro italiano, di sfilarsi dal casino circolante nelle feroci città italiane che non addossare alle vittime la colpa di esserlo. E’ una prima assoluta, ripeto. Ma si sa è la savana, ci sono bufali leoni e iene e che fai, parli con i bufali? “Troppo difficile e anche poco popolare”, pensa il sindaco ministro: quindi tu, scemo che giri in mezzo a una sparatoria che nessuno riesce a fermare tanto meno io che ne ho la responsabilità, o stai a casa o indossi un’armatura. Obbligatoria per legge.

E’ interessante notare che tutti in Italia si riempiono le gote di “mobilità sostenibile”. Salvo poi decretarne l’irrilevanza davanti all’immutata violenza stradale, che è fenomeno naturale e dunque non governabile. Faccio una previsione facile: la prossima primavera qualche stordito farà la stessa identica proposta, e nel frattempo magari i morti sono stati schiacciati da un’automobile elettrica. Soooo green.

*Il testo sopra è stato pubblicato il 18 aprile 2021. Forse per il Covid ho sbagliato la previsione, non è stato durante la primavera 2022 ma alla fine dell’inverno 2023. Ho solo sostituito i protagonisti di allora con l’attuale ministro del ponte sullo stretto di Messina. Non ci ho messo niente a farlo, è stato facile quanto banale. Naturalmente il soggetto in questione, che tende a esagerare, mette sul piatto altre amenità come targa, assicurazione e frecce.

La stagionale ruota del criceto*

Ormai ho una sola certezza nella mia vita di cicloattivista: a ogni allarme via stampa sulla mortalità stradale per i ciclisti salta fuori sempre l’idiozia “rendiamo obbligatorio il casco”. Succede ogni anno, più o meno in primavera, quando gli organi d’informazione, al pari di mondo vegetale o animale, stiracchia le proprie membra e si accorge che c’è gente che si muove in bici. Il passo verso l’allarme è breve: c’è gente in bici dunque rischia. La cosa viene dipinta con gli stessi toni, sempre, e con i medesimi accenti e inflessioni della descrizione di un gruppo di malcapitati in una savana ostile. Nella savana ci sono bestie grosse e pericolose (sottotesto: che ci sei andato a fare, sciagurato?), chi ci si inoltra lo fa “a suo rischio e pericolo” (cit. Dario Esposito quando era assessore a Roma, uno dei killer politici di Ignazio Marino), è in buona sostanza un deficiente che deve essere messo in grado di non nuocere a sé stesso.

L’ultima occasione è stato un rapporto dell’Asaps, amici polizia stradale, ripreso con grande enfasi dalla newsletter di Stellantis, volgarmente “La Repubblica”. Salvini. Ed eccoci ripiombati nella solita ruota di criceto annuale.

Attenzione: non lo dice l’Asaps ma il responsabile sicurezza della Federciclismo, Roberto Sgalla. Sgalla è stato prefetto di polizia prima di andare in pensione, e tra le sue responsabilità in fine carriera c’era anche quella della Polstrada. Salvini. Per noi addetti ai lavori non è una novità: da anni quel signore dice queste cose, regolarmente spernacchiato. Né è tanto grave che la newsletter le riprenda. Stavolta è accaduto qualcosa di diverso, e a mia memoria mai accaduto prima.

Il salto grave è questo: se finora a farsi spazio sui giornali erano dei peones parlamentari che nessuno ha mai sentito nominare, stavolta è stato un sindaco. ministro. Cioé colui che per sua natura deve assicurare che nella sua città suo paese non si svolgano efferatezze stradali. Niente di più facile, per un qualsiasi sindaco ministro italiano, di sfilarsi dal casino circolante nelle feroci città italiane che non addossare alle vittime la colpa di esserlo. E’ una prima assoluta, ripeto. Ma si sa è la savana, ci sono bufali leoni e iene e che fai, parli con i bufali? “Troppo difficile e anche poco popolare”, pensa il sindaco ministro: quindi tu, scemo che giri in mezzo a una sparatoria che nessuno riesce a fermare tanto meno io che ne ho la responsabilità, o stai a casa o indossi un’armatura. Obbligatoria per legge.

E’ interessante notare che tutti in Italia si riempiono le gote di “mobilità sostenibile”. Salvo poi decretarne l’irrilevanza davanti all’immutata violenza stradale, che è fenomeno naturale e dunque non governabile. Faccio una previsione facile: la prossima primavera qualche stordito farà la stessa identica proposta, e nel frattempo magari i morti sono stati schiacciati da un’automobile elettrica. Soooo green.

*Il testo sopra è stato pubblicato il 18 aprile 2021. Forse per il Covid ho sbagliato la previsione, non è stato durante la primavera 2022 ma alla fine dell’inverno 2023. Ho solo sostituito i protagonisti di allora con l’attuale ministro del ponte sullo stretto di Messina. Non ci ho messo niente a farlo, è stato facile quanto banale. Naturalmente il soggetto in questione, che tende a esagerare, mette sul piatto altre amenità come targa, assicurazione e frecce.

Manifestazione perenne per dare una spallata alla città dell’automobile

Da qualche tempo si moltiplicano i segnali di una crescente insofferenza per lo stato bieco in cui abbiamo ridotto le nostre città, fatte crescere negli ultimi decenni intorno all’automobile. Al momento si tratta ancora di un sentire diffuso a macchia di leopardo negli strati sociali, ma è in crescita e le varie isolette di pensiero si stanno connettendo lentamente ma con una progressione che mi sembra evidente. Il capostipite di questo sentire è ovviamente la quieta rivoluzione olandese degli anni ’70, che anche grazie alla tipica serietà calvinista di quel popolo riuscì a mettere spalle a terra il modello autocentrico delle città, che era identico a quelle di ogni angolo d’Occidente, e stravolgere l’uso dello spazio pubblico, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti e una vivibilità delle strade e delle piazze tornata, semplicemente, la modello precedente: la città per le persone, cosa che andava avanti dai tempi della scrittura cuneiforme in tutto il globo, e solo con la motorizzazione di massa cancellata dal ricordo di tutti.

Questa nuova risensibilizzazione alla destinazione d’uso delle nostre tane chiamate città è però ancora fragile e bisognosa di farsi un po’ le ossa dure, entrare nella coscienza collettiva. Questo è il senso del manifestare: rendere manifesto un bisogno più che un sogno, una necessità di cambiamento, una strada diversa rispetto a quella recentemente percorsa. Ne parlo spesso e altrettanto spesso mi viene un senso di scoramento di fronte agli scarsi risultati delle tante manifestazioni e flash mob che noi ciclisti urbani mettiamo in campo da anni, ma poi mi passa, mi risale la rabbia per l’ingiustizia sociale della città dell’automobile, disgregatrice e divoratrice di risorse spaziali, economiche, ambientali e mi rimetto in pace con la necessità di manifestare. Questo sembra essere un istinto comune al sempre crescente numero dei compagni di strada, e infatti nei prossimi mesi si susseguiranno alcune azioni per ribadire quanto sopra.

L’Italia, grazie all’eco mediatica suscitata da Milano città 30 km/h, ha scoperto che in realtà ad Olbia era adottata da anni, e che Bologna giusto lo scorso anno ha deliberato la stessa cosa in un atto di giunta (cioé: finanziato e cogente, quindi accadrà). E’ il punto si svolta secondo una serie di associazioni e realtà, ovvero Fiab-Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta, Legambiente, Asvis, Kyoto Club, Vivinstrada, Salvaiciclisti, Fondazione Michele Scarponi, Amodo e Clean Cities Campaign, che per domenica 26 febbraio hanno indetto una manifestazione diffusa, cioè in diverse città italiane, che nel momento in cui scrivo sono arrivare a 17, tra cui Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Perugia, Napoli. E’ il via alla campagna, che si stima perenne, chiamata “Città 30 subito”, in luoghi simbolici scelti dalle realtà locali si formeranno delle strisce pedonale umane: in corrispondenza di attraversamenti pedonali verrà organizzato un pacifico passaggio umano di persone e biciclette per chiedere un cambio di passo nelle politiche della mobilità e informare le persone sui vantaggi del modello città 30. Nella mia città, Roma, abbiamo scelto via Tripolitania: lì fu travolto e ucciso il 29 dicembre scorso Said, il fioraio di zona; luoghi simili -le nostre città sono costellate di sangue umano sacrificato al moloch automobile, purtroppo la scelta è ampia- sono stati scelti nelle altre città. La manifestazione è accompagnata da un vademecum, messo a punto da Edoardo Galatola di Fiab e Andrea Colombo, ex assessore bolognese alla Mobilità e coautore del percorso che ha portato con una forte spinta dal basso a Bologna città 30, che illustra in dettaglio cosa è una città 30 km/h, con una corposa documentazione che naturalmente i contrari al cambiamento non leggeranno mai. Possiamo serenamente includere tra questi il direttore di Quattroruote, che ha recentemente squillato le trombe dell’allarme perché a suo dire contro l’automobile è stata dichiarata una guerra di religione.

Ora che avete smesso di ridere e rimesso nell’armadio i paramenti di Goffredo di Buglione vi interesserà sapere che per il 3 giugno prossimo si sta preparando la terza grande manifestazione nazionale a Roma, per ora promossa in semiclandestinità ma da un cospicuo numero di attori già organizzatori della manifestazione del 28 aprile 2012 che diede il via al movimento Salvaiciclisti. “ Il nostro obiettivo è che il 3 giugno 2023 centomila ciclisti portino un dossier di interventi sul tavolo del Ministro dei Trasporti per chiedere interventi urgenti”, fa sapere il gruppo promotore alla testata Bikeitalia.it. La data non è scelta a caso: oltre a essere sabato, quindi comodo per chi deve raggiungere Roma, è anche il World Bicycle Day, la giornata della bicicletta indetta dall’Onu dal 2018.

Insomma: da questa domenica inizia una spinta continua verso la città riconsegnata alle persone. Se ce l’hanno fatta in Olanda 50 anni fa ce la possiamo fare anche noi, e non tra 50 anni.

Costretti a manifestare da oltre dieci anni: zero esiti

La morte iniqua di Veronica, la giovane donna milanese da poco madre, sotto le ruote di un camion in piena Milano ha innescato la reazione di chi si sposta in bici in quella città. E cadono le braccia a chi sa e ricorda che proprio un fatto analogo a Londra nel 2012 innescò la rivolta dei ciclisti urbani che portò all’inizio di un cambiamento stradale in Uk ancora in atto. La campagna Save Our Cyclist fu adottata anche in Italia, traducendola in Salvaiciclisti, movimento nato in rete grazie al blogger Paolo Pinzuti che chiamò a raccolta gli altri blogger attivi nella ciclabilità: rispondemmo in 38 lanciando la campagna a febbraio e in un crescendo parossistico riuscimmo a portare decine di migliaia di manifestanti lungo via dei Fori Imperiali a Roma il 28 aprile di quell’anno: mai successo prima in Europa e il solo esempio che mi viene in mente è la campagna olandese negli anni ’70 Stop de kindermoord. A iniziare il movimento che trasformò l’Olanda fu un il padre di un bimbo ucciso da un automobilista, che per caso era anche giornalista e pubblicò ciò che pensava proprio con quel titolo, Fermare l’uccisione dei bambini.

E ricadono le braccia a notare che la prima campagna stampa in Italia a sollevare il problema che per alcuni di noi è così evidente da diventare per ciò solo invisibile viene dal Corriere della Sera proprio in seguito al trauma indicibile seguito all’uccisione di Francesco Valdiserri, che era figlio di Luca e Paola, giornalisti di quella testata. In qualche modo anche da noi a volte si riscopre la missione di sorvegliante etico del giornalismo, e come in Olanda e in genere nelle cose umane spesso gli abissi del dolore riescono a innescare una reazione di segno opposto. Solo che da noi stiamo reagendo -forse- mezzo secolo dopo gli olandesi. Si badi bene: i Paesi Bassi degli anni ’70 avevano la stessa identica situazione stradale del resto d’Europa, caos di lamiere, morti, feriti, congestione. Inutile dire che oggi sono il faro della vivibilità negli spazi collettivi.

Noi abbiamo reagito dal basso nel 2012: e come sempre in Italia tante pacche sulle spalle, molti articoli, tanta visibiltà e un italianissimo nulla di fatto, anzi la situazione è peggiorata, la guida si è incrudelita -la mia è una stima esperienziale, a occhio- dopo la pandemia. A Roma siamo già arrivati a 20 morti uccisi da veicolarità dall’inizio dell’anno e siamo solo a febbraio.
La manifestazione di Milano a piazzale Loreto ha visto secondo gli organizzatori circa tremila persone sdraiarsi sul selciato, esporre cartelli autoprodotti. Sono state citate le vittime di violenza stradale ed è stato scandito più volte “Basta morti in strada”, slogan che ripetiamo dai tempi che sopra ho ricordato. Apparentemente invano. Giovedì 9 febbraio a Genova verrà presentato il libro “Le auto non impazziscono. Il valore delle parole, la narrazione sbagliata degli scontri stradali”, di Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, diciassettenne ucciso da un automobilista, con cui si prova almeno a cambiare la percezione degli esiti della violenza stradale nei media, mettendo in luce anche il ruolo nefasto della pubblicità delle auto. Leggere ancora oggi sui giornali italiani parole come “spettacolare incidente” fa venire voglia di scappare da questo inerte paese che continua a masticare i suoi figli in nome di una malintesa libertà di movimento personale, che in realtà è asservimento a un’economia malata e mortale. In Olanda sono riusciti a ribaltare lo stato delle cose, ma loro sono calvinisti e nella loro cultura il favore di Dio si ottiene in corso di vita, non alla fine davanti al confessore.