Dalla parte giusta della storia: Bologna 30

“I centri si svuoteranno… Ostaggio di immigrati…” Ho trovato questo stralunato commento, simile a tanti altri ma questo veniva dopo una specie di ragionamento su Bologna a 30 km/h, sotto il post Facebook di un amico che dirige una rivista di biciclette. I puntini di sospensione ammiccanti sono originali, non miei. L’aspetto interessante di questa opinione sbrindellata è che non viene da qualche analfabeta cognitivo ma da una persona che nella sua bio social elenca una serie di testate giornalistiche a cui collabora, dunque il suo problema non è nella scarsa strutturazione di pensieri e parole. Tuttavia riesce a tirare fuori perle di questo tipo.
Probabilmente la “rivoluzione bolognese” ha colpito duro nell’immaginario collettivo. Per la prima volta in un paese costruito intorno alla divinità automobile, unica divinità personale che ciascuno può toccare, l’idolo è stato buttato giù dal suo piedistallo in una città capoluogo di regione e neanche di quelle piccine o meno note. Il nuovo limite generalizzato ti dice in sostanza la semplice, direi banale, verità: la velocità uccide. La priorità assoluta non è il tuo personale comportamento allargato fino allo sconsiderato ma salvare vite in un contesto urbano che da decenni vede il mezzo pesante privato aver occupato ogni spazio e ogni pensiero, mettendosi al centro del modo di spostarsi nelle nostre tane di bipedi chiamate città.

In sostanza l’esperienza bolognese sta portando all’evidenza di ciascuno ciò che chi ha già cambiato modalità di spostamento vive ogni giorno: la società italiana si comporta collettivamente come un tossicodipendente. In questo caso la dipendenza è da automobile e il pusher è lo stesso Stato, che con poca lungimiranza e in nome probabilmente del lavoro e della raccolta fiscale -ometto le convenienze personali e partitiche- ha puntato tutto sull’automobile come mezzo privilegiato di spostamento fuori casa. Puoi sempre provare a portargli via la “roba” per salvargli la pelle ma quello diventa aggressivo e dunque aggredisce.

Meccanismo che Salvini maneggia perfettamente, ed eccoci a oggi: con solerzia i suoi uffici, che normalmente ci mettono anni o anche tempi infiniti tendenti al mai, hanno calibrato la richiesta direttiva che intralcia in tutta Italia anche la sola possibilità di mettere mano al disastro fatto in decenni. Pochi giorni di lavoro per esercitare una perfidia sottile: i 30 nei dintorni di parchi e scuole, dice la vulgata giornalistica. Il sottotesto è: si può rallentare nei pressi di luoghi ludici o frequentati da minori, però il resto del mondo è di noi adulti che abbiamo da fare e non possiamo rallentare la nostra operosa attività. Perfetto, da applausi. Ma a Salvini non conviene citofonare ancora a Bologna, di solito gli porta male.

E’ totalmente inutile con questo tipo di gente svolgere ragionamenti. Nei giorni scorsi è circolato un tweet di Milena Gabanelli, estremamente rilanciato: “Abito a Bologna e non c’è nessun caos. Si va a 30 km/h a Londra, Bruxelles, Helsinki, Barcellona, Zurigo, Madrid, Graz…dove hanno pensato che la vita di un bambino, un pedone, un ciclista valgono più dei 5 minuti persi a rallentare”.

Tra i protagonisti di questa rivoluzione bolognese c’è Simona Larghetti, ora consigliera comunale di Coalizione Civica dopo un percorso di attivismo in seguito al suo incontro con il movimento Salvaiciclisti a fine 2012. Ho chiesto a lei la sua opinione, eccola.


“A Bologna, città in cui è nata la prima università del mondo, non abbiamo paura delle novità e con il diverso ci abbiamo fatto marketing territoriale per mille anni circa”, mi risponde. “Salvini, che usa il Ministero delle Infrastrutture un po’ come la sua sala giochi, ha dichiarato guerra al provvedimento bolognese, preannunciando pazzesche direttive. Come si intestò le morti in mare, ora vuole intestarsi i morti in strada, cavalcando come sempre la reazione, la paura, il diverso. Dal 2013 mi batto per la città 30, perché non ci credevo nemmeno io, ma poi ho fatto la prova: 11 anni fa ho guidato rispettando questo limite, che mi sembrava assurdo, e mi sono accorta che in città, causa semafori, traffico e code inevitabili, i tempi di percorrenza sono gli stessi se consideriamo tragitti di pochi chilometri. Sui 30 km/h in città ho solo una cosa da dire: provate”. Lo ha fatto “dopo aver conosciuto Anna, un’attivista dell’Associazione Vittime della Strada che in un incidente stradale ha perso un pezzo di gamba e si è trovata un marito gravemente cerebroleso”. Ma cosa vuoi che importi a chi ha fretta e non sopporta limitazioni, come i bamboccioni al volante.

“Sempre e per sempre dalla tua parte mi troverai”: l’autodifesa italiana di base

You’ll never walk alone è l’inno dei tifosi del Liverpool, e scusate se cito qualcosa che attiene all’animalità del tifo ma spero di farmi capire in seguito, abbiate pazienza qualche secondo.
Nel corso del momento di pausa chiamato feste di Natale è saltata fuori una notizia un po’ strana da Milano: la magistratura, in seguito alle troppe morti di persone in bici schiacciate da camion o altri mezzi pesanti presenti in strada, sta indagando.
Su cosa? Indaga sulla legittimità di corsie preferenziali dedicate alle biciclette. In sostanza il tema dell’indagine è se sia legittimo che esistano corsie dedicate allo scorrimento delle biciclette. Non su chi schiaccia chi.

Il tema è importante perché in caso di risposta sfavorevole alle corsie si troncherebbe una pratica adottata in ogni paese transalpino da anni, importata qui anche grazie alle spinte di noi attivisti (ormai da tempo, penso a Roma nel novembre 2014, nel tunnel tra Esquilino e S.Lorenzo la prima azione in assoluto di corsia home made in Italia) e poi adottata per legge nel corso della pandemia, quando sembrava che tutto dovesse cambiare. Tentativo ora sotto indagine della magistratura milanese, indagine immagino replicabile in ogni parte d’Italia che l’abbia adottata, e sfortunatamente ci sono pochi esempi.
Citavo l’inno dei tifosi del Liverpool ma vorrei rinforzarlo con i versi di una canzone di De Gregori: “sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Gli italiani, ogni italiano tranne la minoranza che ha già cambiato vita, fanno testuggine. L’intensità e la pervasività della cultura autocentrica occupa la mente di chiunque in Italia, anche delle eccellenze come i cervelli lucidissimi dei magistrati. Ogni tentativo di scalzare la dipendenza dall’uso dell’autovettura personale (ricordo: in media portano 1,2 persone a veicolo, da sempre) viene rigettato dalla sommatoria delle abitudini personali di quasi chiunque in ogni angolo dello Stivale.

Ho chiamato Matteo Dondé, urbanista teorico e pratico delle città 30, anche amico personale. Mi ha mandato un audio eccessivamente lungo che provo sia a riassumere sia soprattutto a edulcorare. “Da sempre c’è l’idea che la strada sia dell’automobile per cui non bisogna dargli fastidio, non bisogna mettere altri elementi, e io credo che questa la dica decisamente lunga: è il motivo per cui l’incidentalità urbana in Italia continua a crescere il triplo rispetto al resto d’Europa: qui continuiamo a morire. Non è una questione di corsia ciclabile: oggi è la corsia ciclabile, domani sarà qualcosa altro. Il problema è che culturalmente abbiamo ancora in mente il linguaggio dell’automobile. Non siamo riusciti a crescere sotto questo aspetto”. Matteo cita anche i pompieri di Parigi: “hanno ridotto i tempi di intervento grazie proprio alla ciclabilità perché si è ridotto il traffico e allora loro riescono a muoversi più velocemente”.
Con questo vi saluto in attesa di reazione. Altro che buon anno.

La cargobike con la lotta intorno

A ogni giro del pianeta intorno al sole torna il periodo natalizio, con il suo stanco portato di acquisti per i regali: sono felici solo i bimbi, innocenti e felici come solo i grandi saggi sanno essere fino alla fine, che scartano e scartano sotto l’albero. Noi adulti siamo bombardati da pubblicità che indicano dove e come buttare soldi in cambio di oggetti, a volte con suggerimenti paradossali: l’altro giorno sentivo in radio il consiglio di regalarsi per Natale una cucina nuova. Una cosetta da niente. Se i miei nonni sentissero una cosa del genere non riuscirebbero a capire da dove nasca una simile follia.

Quest’anno però c’è un consiglio che mi aggredisce improvvisamente alle spalle, materializzando uno dei miei sogni più irrealizzabili, e nasce paradossalmente in questo paese spalle a terra come ha relazionato il Censis nel suo ultimo rapporto. Attenzione: non è una bella storia ma potrebbe diventarlo: dipende da noi e dagli operai di una fabbrica.
Si tratta della Gkn di Campi Bisenzio, Firenze, ora sotto la mannaia del licenziamento collettivo. Il termine ultimo per sapere quale sarà il loro destino è questo 31 dicembre. Gkn Automotive è una multinazionale che produce pezzi per automobili, in Inghilterra hanno già licenziato e adesso tocca all’Italia. Gli operai si sono uniti nella cooperativa Insorgiamo e da tempo lottano contro il solito maledetto meccanismo della delocalizzazione tanto caro alla finanza in bulimica ricerca di sempre maggiori profitti. A luglio scorso è stata costituita la cooperativa Gff, con 14 soci tra lavoratori e sovventori, tra cui Insorgiamo, che sta portando avanti un piano di reindustrializzazione dal basso.

Che voglio fare gli operai? Una cargobike. Anzi l’hanno già fatta, in vari prototipi. Dalla produzione di aggeggi per la costruzione del mezzo meno efficiente della storia umana a quella del mezzo in assoluto più efficiente. A chi sia venuta in mente questa genialata non lo so ma come dicevo sopra incarna uno dei miei sogni.

Trovate ogni particolare sul sito del collettivo, insorgiamo.org. Nella presentazione della cargo si legge che “fa bene all’ambiente, fa bene alla lotta. Puoi avere i nostri prototipi con una donazione liberale: tu hai una cargo-bike, sostieni la lotta, ci dai un feedback sul suo funzionamento e porti a giro un “volantino” a favore della lotta scritto con la saldatrice. O puoi preordinare il tipo di cargo-bike che abbiamo prototipato. La reindustrializzazione di una fabbrica non è solo un fatto tecnico. È anche un problema tecnico.Ma oggi la reindustrializzazione di Gkn è un fatto sociale, sindacale, politico. E’ un esempio che questo sistema non si può permettere. Per questo questa cargobike si fa strada solo con rapporto di forza diversi e fa strada a rapporti di forza diversi. Dimostrazione fisica, materiale che si può”.

Rilancio qui questa magnifica idea e invito chiunque a sovvenzionare “la cargobike con la lotta intorno”. E magari a comprane una: altro che cucine usa e getta.

Aumentano le aggressioni ai ciclisti romani

Negli ultimi tempi osservo con preoccupazione un aumento di atti violenti e comportamenti aggressivi nei confronti di chi si sposta in bici nella mia città, Roma. Anche nella mia esperienza, anche se finora non ho subito aggressioni fisiche ma solo accenni di spostamento di traiettoria di veicoli a motore e in un caso uno sputo da parte di un ragazzo in scooter elettrico, che fortunatamente non ha centrato né me né la bici. Dalla mia bolla social vedo crescere a macchia di leopardo atti simili in altri luoghi d’Italia. A Roma recentemente si sono verificate aggressioni a Ponte Mammolo (Tiburtina), Appia Nuova e Nomentana. Il più grave di tutti, per la dinamica, sulla Tuscolana lo scorso venerdì di Critical Mass: una donna in ospedale con prognosi di 30 giorni, un ragazzo con un dente rotto per un pugno e un altro con clavicola fratturata dopo l’aggressione che lo ha fatto cadere male sulla sua bici. Questo è un episodio su cui vorrei focalizzare l’attenzione anche perché ho visto i video che mi ha mostrato chi c’era e perché la donna investita è stata attivamente cercata dagli occupanti di una Smart bianca a quattro posti.

Le aggressioni in realtà sono state due, la prima nella parte semicentrale della Tuscolana con una rissa scatenata dall’occupazione della carreggiata da parte della Cm, cosa non mandata giù da un quartetto di ragazzi giovanissimi, uno di questi vestito alla trapper, ai miei occhi e a detta di tutti i presente evidentemente appartenenti all’estrema destra, che in quella zona ha vari covi -e palestre-. Gente insomma che ai miei tempi si sarebbe definita “picchiatori fascisti”, con parecchi sintomi di sovreccitazione da sostanze: le testimonianze concordano e anch’io l’ho notato pur avendo visto solo video.

Dopo la rissa il peggio è arrivato dopo, un centinaio di metri avanti, quando i tizi si sono ripresentati a bordo della macchina dietro la coda della Cm. Dalle testimonianze degli ultimi due che stavano dietro i tizi hanno scelto la loro vittima, la terz’ultima, appunto una donna: “Prendi quella, prendi quella”, hanno detto, sbattendola a terra colpendola sulla ruota posteriore. Sono scappati ma sono stati tanto scemi da tornare a piedi in seguito, dopo che l’ambulanza era andata via, armati di tirapugni e coltello. Ma c’era la polizia, che li ha bloccati e identificati. Ignoro se siano stati denunciati dopo l’identificazione ma tutti i testimoni concordano sul mancato arresto o fermo in caserma, cosa di cui non mi capacito.

L’aria per noi si è molto appesantita. Un crescente nervosismo nel traffico e a mio parere l’individuazione del ciclista urbano come nuovo nemico, cosa di gran moda oggi che la destra è al governo, sono alcune delle cause di ciò. Ma probabilmente va approfondita la crescente fragilità degli individui, portati a scoppiare per un nonnulla per le pressioni che i contemporanei non sono in grado di sostenere. E forse chi mostra libertà di movimento è da abbattere: un alieno, per gli alienati.

Non andate a Rotterdam

Mancavo dall’Olanda da più di venti anni, quando ci passai oltre un mese per mettere a posto e poi far viaggiare fino al Mediterraneo la barca in acciaio che ancora ci accompagna nelle nostre navigazioni. Gli olandesi hanno una storia di eccellenza nella carpenteria nautica in metallo: le grandi barche a vela da carico che portavano merci su e giù per gli infiniti canali (un’infrastruttura, tra le tante, che in Italia non esiste e che c’era solo lungo il Po, ma lasciata andare in favore dell’asfalto) sono ancora naviganti, oltre un secolo dopo la loro costruzione.

Dall’inizio della mia avventura con e per la bicicletta non ho voluto più andare in Olanda, e se per questo neanche in Danimarca, sapendo perfettamente che ne sarei tornato amareggiato avendo toccato con mano l’abisso che separa quei paesi dal nostro, intensamente motorizzato e ancora convinto che la bicicletta sia un utensile sportivo al pari di una racchetta o di un paio di sci. E invece l’esistenza mi consegna una figlia che decide di andare in Erasmus a Rotterdam, lì dove Erasmo è nato. Quindi zitto e buono, con il mio carico di rassegnazione e vettovaglie su richiesta, mi imbarco all’inizio di novembre per andarla a trovare.

L’impatto davanti alla stazione centrale è abbastanza scioccante: freddo a parte, dal cielo cade una cortina d’acqua consistente, condizione meteo locale che la studentessa assicura abituale e che ricordavo anch’io, essendo il cantiere della barca a una ventina di km da lì. Lo shock mi deriva dalla vista immediata di parecchie decine di persone che vedo pedalare sotto l’acqua ma in jeans o gonna e calze. Cerco di intravedere sui loro volti smorfie di disappunto o comunque sentimenti negativi rivolti alla sfiga di pedalare in quelle condizioni e non ne intravedo alcuno. Come difesa dall’acqua solo giubbotti impermeabili e in qualche caso neanche quelli. Di completi antipioggia ne vedo sì e no un 6-7%. Una cosa stranissima, per me che quando butta a pioggia non esco senza avere nelle borse il completo antipioggia e traspirante di buona qualità.

Mi viene da pensare a quella formula stantìa che i benpensanti usano lanciare facendo spallucce a noi attivisti, “ma Roma non è mica Amsterdam”, a ogni tentativo di mostrare la necessità che il nostro paese sviluppi la ciclabilità come nel resto d’Europa, con l’Olanda come capofila. E penso anche al forte vento di quelle lande, che quando arriva dall’Atlantico con il suo carico di freddo e pioggia, trasforma ogni pianura in uno Stelvio.

Le bici che vedo sono esteticamente inaccettabili nella massima parte dei casi. L’incuria nella loro manutenzione mi risalta evidente, in un caso ho fatto la fila (la fila! Mi sembrava di sognare) dietro una ragazza con il filo del freno anteriore penzoloni e pericolosamente oscillante verso i raggi della ruota. In generale sono mezzi pesanti e maltenuti, ma quelli e quelle pedalano ugualmente per andare dove devono.

Qui invece si scannano per auto elettrica sì o no. Un paese di fessi.

Vivere in città-trappola non è un destino ineludibile

Piano piano l’argomento comincia a -è il caso di dirlo- farsi strada nel dibattito collettivo: ma in che città stiamo vivendo? Come siamo arrivati a rendere invivibili le nostre tane? In uno degli anni peggiori che si ricordino per mortalità sulle strade, e per le modalità con cui si giunge a una fine di vita anticipata a volte ai limiti della follia (basti pensare alle persone in bici o a piedi uccise da persone alla guida di mezzi pesanti, il caso Milano è eclatante), ci sono sempre più osservatori che -anche se lentamente- stanno inquadrando meglio il problema, a volte usando parole e concetti prese di peso dal mondo dell’attivismo, tradizionalmente indicato come una piccola ridotta di inguaribili sognatori e ingenui fricchettoni. E’ il caso, recente, dell’intervento sulle pagine romane del Corriere della Sera dell’ex pretore antismog come veniva definito negli anni ’90 Gianfranco Amendola, ex magistrato ed ex europarlamentare Verde.

In un intervento dal titolo “Capitale della lamiera”, appunto l’espressione che da anni circola negli ambienti della Critical Mass, Amendola punta il dito non solo sul fiume di sangue versato ma soprattutto, e questa è una novità da salutare come un raro momento di lucidità su un quotidiano, in chiave di occupazione spaziale. “Roma non è più una città per l’uomo -scrive Amendola nel suo editoriale- ma una città per le auto, che presto diventeranno più numerose degli umani”. Benvenuto.

Esiste un curioso esercizio comparativo inaugurato dal blog Turismo senza Auto e poi ripreso dall’altro blog Ambiente e non solo curato da uno dei membri del Kyoto club Marco Talluri: si mettono a confronto l’occupazione spaziale di umani e automobili in diverse città, calcolando che in un metro quadro entrano due persone e un’auto privata ne occupa mediamente 12,5. TsA ha messo a confronto Roma, Milano e Bologna, Talluri è andato oltre e ha applicato il calcolo a 14 capoluoghi di provincia. Non esistono dati attendibili sullo spazio non occupato dagli edifici, e per brevità il calcolo è stato fatto sull’intera superficie comunale, parchi compresi. Risulta che a Roma, quasi 700 veicoli ogni mille viventi e una superficie di 1.287 kmq, lo spazio occupato dagli abitanti è di 1.385.113 mq, quello occupato dalle auto 21.677.018: i quasi tre milioni di romani occupano lo 0,11% dello spazio cittadino. Lo spazio occupato dalle auto è quasi due volte e mezzo dell’area urbana del Lido di Ostia, sottolinea invece Amendola, ricordando che la capitale è la città più congestionata d’Europa e la seconda città al mondo per tempo buttato nel traffico: 21 giornate lavorative all’anno. Secondo l’ex magistrato non ci si può limitare a interventi migliorativi, comunque necessari, dei singoli servizi “se poi continua a dettar legge la città dell’auto con il suo corollario di egoismi, di isolamento e di prepotenze”.

Nel frattempo la situazione in città è precipitata nel caos grazie a quei cantieri che citavo in un mio altro intervento (e avevo dimenticato il rifacimento di piazza dei Cinquecento di fronte alla stazione Termini). I presidi dei licei del centro sono arrivati a tollerare ritardi di 20 minuti perché i ragazzi, banalmente, non riescono ad arrivare in tempo in classe anche se si alzano prima. E questo in meno di una settimana dello strangolamento viario inaugurato sabato scorso a piazza Venezia. Piazza che determina il centro di Roma e che incredibilmente viene ancora percorsa dalla veicolarità privata, una situazione esclusivamente italiana. Personalmente continuo a passare, ho maggiori difficoltà persino in bici, e vado spesso ad ammirare, rapito, l’enorme fila su via del Teatro Marcello alle pendici del Campidoglio, fila che non avevo mai visto con questa consistenza e questa costanza.

Un’altra commentatrice romana, Chiara Valerio stavolta dalle pagine romane di Repubblica, si è lanciata in un’ardita composizione in cui chiama addirittura in causa la bellezza della scuola dell’obbligo, che ha allargato le menti di gente abbrutita da una vita di stenti prima che la scuola fosse obbligatoria per tutti, che a suo parere non è più così bella per il fatto che “il diritto di imparare non è più accompagnato dal dovere di aver imparato”. Tutto questo per accollare ai nuovi semafori installati per la gestione del traffico veicolare la causa del disastro in atto in questi giorni. Che l’abuso di automobile sia la fonte prima di ogni guaio cittadino non salta neanche in testa all’autrice. Eppure sarebbe così semplice: basterebbe realizzare che dalla città trappola si può uscire con le proprie scelte, il resto verrebbe di conseguenza.

La lezione della mosca

C’è un momento esatto a cui faccio risalire la mia ricerca sulla semplicità come pratica, atteggiamento, lente di lettura, strumento di vita, e questo momento coinvolge naturalmente una bicicletta e, abbastanza sorprendentemente, una mosca.

Nella seconda metà degli anni ’90 sono andato in Tunisia per un viaggetto di un paio di settimane senza programmi precisi ma comunque verso le propaggini settentrionali del grande deserto africano, giusto per vedere un po’ com’era. La mia bici di allora era una AlAn da ciclocross un po’ fuori misura per me ma comunque mi ci trovavo bene, e ancora non ero così fanatico per la precisione delle misure come oggi: un po’ troppo alta ma in ogni caso la canna centrale, che oggi so chiamarsi tubo orizzontale, non mi sbatteva (troppo) sull’inguine scendendo dal sellino, quindi andava bene. Quella bici mi fu poi rubata per mia colpa, avendola lasciata appoggiata al muro mentre entravo in un negozio dove c’era un’offerta di calzini di spugna neri; un gran dispiacere ma in fin dei conti mica tanto, visto che la bici era ormai storta dopo un frontale con una grossa moto da enduro che mi ha lasciato acciaccato per un po’.

Tornando alla Tunisia e al momento della mosca, quel giorno di giugno partivo da Matmata verso Douz. Tutti al mondo conoscono Matmata, perché fu un set di Guerre Stellari, cioè la casa di Luke Skywalker quando ancora viveva con gli zii. Avrei finito la giornata a Douz, all’inizio della grande distesa salata (dunque bianca, accecante) dello Chott el Jerid; la Michelin mi indicava che il percorso era uno sterrato, quindi forse avrei dovuto dormire da qualche parte lungo i poco meno di 100 km di percorso. Salvo poi scoprire che giusto l’anno prima l’avevano asfaltato e il viaggio, che mi aspettavo lento e faticoso, si è rivelato un lampo, complice anche un vento furioso da dietro che per un tratto mi ha fatto andare a vela, avendo improvvisato uno spinnaker con il pareo legato al collo e al manubrio. Poi mi sono stufato di stare fermo e sono tornato a pedalare, velocità tra i 30 e 35 kmh, cosa che con la bici carica non è affatto usuale.

E’ a quel punto, circa a metà del percorso, che appare la dannata mosca. Si piazza nei dintorni del mio viso e non se ne va. La scacciavo di continuo, tornava, a volte non m’infastidiva ma altre si metteva nei dintorni delle narici, più spesso sotto il cappello nei pressi della fronte e delle tempie. Ci ho convissuto un’oretta scarsa, dunque una trentina di chilometri. All’improvviso ho capito: c’è un gran caldo, cerca ombra e umido. Levo il cappello e lo metto in tasca, la mosca scompare senza mai più tornare.

Semplicissimo ma ci ho messo un’ora a capirlo, un vero fessacchiotto. Penso spesso a quel momento, soprattutto quando mi trovo di fronte a scelte.

Ci penso anche quando guardo, sconcertato, la quotidiana fiumana di automobili che tracima nella mia città.

Roma, in questi mesi, è seppellita da cantieri in contemporanea. Al centro c’è la combinazione, geniale, del cantiere per la metro C a piazza Venezia e quello per il Giubileo davanti a S.Pietro in sponda destra Tevere: due punti nevralgici per il cosiddetto traffico, gli effetti si riverberano sull’intera città. Un solo giorno di questo inferno basterebbe per farti decidere di rottamare l’auto ma niente: imperterriti continuano a non cambiare modalità. Da tempo ho eliminato anche questa mosca dalla mia vita: il cappello che ho alzato è la scelta di muovermi in bici e non su mezzi a motore. Cosa manchi ad altri per realizzarlo mi risulta ormai incomprensibile.

Cantar messa ai trogloditi: la Settimana europea della mobilità sostenibile

Come ogni anno da qualche tempo a questa parte arrivano le celebrazioni della Settimana europea della mobilità detta “sostenibile”. Già solo il fatto di definirla tale e fare finta di non capire e soprattutto urlare che quella standard sia insostenibile qualifica l’iniziativa, un pannicello caldo al pari delle giornate Onu dedicate a qualcosa, l’ipocrisia istituzionale fatta manifestazione festosa.

Quest’anno è particolarmente doloroso constatare che questa fiera paesana viene calata in un contesto così feroce e così fuori controllo da rendere l’iniziativa particolarmente disgustosa.

Abbiamo già dimenticato evidentemente che dall’inizio dell’anno nell’operosa e Pilifera Milano cine persone in bici, quattro donne e un uomo, sono state uccise da altrettanti camion in manovra di lavor, alla gloria del cemento verticale od orizzontale della boriosa patria del dané. Una sesta, un’anziana donna, era a piedi mentre la sua vita veniva terminata da un furgone in retromarcia.

Inarrestato ed inarrestabile il fenomeno, a quanto pare meteorologico e quindi fuori dalla portata del controllo umane, delle automobili lanciate ad alta velocità, se ne leggono una o due al giorno solo nella mia città, Roma. Che siano bambini, adulti, anziani: nessuno può dirsi esente dalla possibile fine sotto le quattro ruote di un normalissimo cialtrone italiano qualsiasi. Non parlo solo di gente che ha scelto la bici ma letteralmente di chiunque, automobilisti compresi (basta che uno dei due mezzi sia più corazzato dell’altro).

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera di Milano riporta i risultati di una ricerca della Makno, che non ho visto ma tenderei a fidarmi, mica è un Feltrino qualsiasi: una quota consistente di persone sta abbandonando la bici come mezzo di spostamento urbano, la ricerca dice il 20%. E’ il risultato di una situazione invariata nel campo della motorizzazione e della crescita potente in quello della mobilità ciclistica. Una prospettiva che molti di noi attivisti avevano già paventato anni fa: se crescono i ciclisti ma in strada non cambia niente i morti fioccheranno.

Ecco, dagli inizi degli anni 2000 quando in Italia fu importato il fenomeno della Critical Mass – primo esempio di rivendicazione root delle strade accoppiato a una critica profonda del sistema economico, sociale, antropico a tutto tondo, quindi poco massificabile- ai giorni nostri, dopo che quell’esperienza ha fatto germogliare foreste di iniziative, nuove visioni, mode, stili di vita e anche esperienze di attivismo strutturato, nelle strade italiane non è cambiato assolutamente nulla. Il modello generale è quello del brùmbrùm con la macchina mia, e guai a chi me la tocca, e ci corro quanto voglio perché l’ho pagata e nessuno mi deve dire cosa devo fare.

Circa 15 anni fa volevo comprare un autovelox o simili: provate a fare la ricerca su Google con la chiave “autovelox” e ditemi. Escono fuori solo risultati su come fare ricorso alle multe o sistemi per individuare dove siano stati piazzati.

Questo è ancora oggi lo stato generale della mentalità collettiva. Continuare a proporre convegni e incontri e “pedalate”, che Dio li perdoni per la scelta del termine inchiodato agli anni ’80, per celebrare la Settimana europea eccetera ai miei occhi comincia ad essere non più solo offensivo come ho sempre pensato ma qualcosa da cui doversi difendere come se si trattasse di un’aggressione. In un video l’assessore alla Mobilità della mia città, che parlava alla tv dell’agenzia capitolina di cui è dunque l’editore, si beava del fatto che una cinquantina di associazioni -a Roma non ce ne sono così tante, soprattutto nel settore della mobilità, ma pazienza- si erano entusiasticamente mosse a coorte per partecipare a questa o quella manifestazione. Buon per loro, ci ricaveranno qualcosa. Per quel che mi e ci riguarda dobbiamo mettere il punto finale a queste buffonate che servono solo a lavarsi la coscienza senza cambiare di un’unghia il sistema che ci assassina per strada, e considero una partecipazione consapevole equivalente alla complicità nel reato di omissione. Capisco perfettamente le obiezioni che mi vengono rivolte ogni anno: “partecipare è utile a diffondere la cultura della mobilità anche verso chi non sospetta possibile il cambiamento”. La sento da quasi due decenni e la situazione è addirittura peggiorata, complici ance i trogloditi che mandano al governo gente inadeguata e si glorioano della valenza positiva della protervia stradale che mettono in campo ogni giorno, oggi persino benedetta dall’uomo che siede a Porta Pia.

Nella generale follia dei tempi mi piace segnalare la campagna anti tram che da mesi sta conducendo il Messaggero: il quotidiano di Caltagirone sta facendo delle giravolte impensabili, fino a far dire a sedicenti esperti che il tram inquina e fa diventare sordi, pur di non vedere costruita la tratta tra Termini e Vaticano. Una Settimana europea andrebbe fatta, sì, in questo paese di cavernicoli: quella della Mortalità insostenibile.

“La magia della bicicletta” è anche la sua capacità di generare conflitto sociale

“La bicicletta è assurta a un nuovo ruolo: quello di rovinafamiglie. La donna in questione è la signora Elma J. Dennison, di anni 23, residente a Brooklyn al 513 della Quinta Strada. Una «ragazza in bicicletta» che monta un veicolo da uomo e indossa pantaloni alla zuava. Sposata con Charles H. Dennison nel 1892, era dedita alle faccende domestiche, accresciute dall’arrivo di due graziosi bambini, fino al fatidico momento in cui il marito le ha regalato una bicicletta. Il signor Dennison racconta che la moglie è caduta vittima della febbre della bicicletta fino ad arrivare a trascurare tutto il resto: casa, figli e marito stesso. Viveva solo per la dueruote, e in sella a essa. In poco tempo è passata al modello da uomo, abbandonando le gonne in favore dei calzoni alla zuava. Da quel momento la signora dice che il coniuge ha cominciato a maltrattarla, tanto che è stata costretta a lasciarlo e ad avviare una causa di separazione per vessazione. Il signor Dennison sostiene che la moglie sia una maniaca della bicicletta e avanza come prova un messaggio ricevuto di recente: «Caro marito, incontriamoci all’angolo tra la Terza e la Settima, portami i pantaloni neri, una latta di lubrificante e la chiave inglese»”. “The Wichita Daily Eagle”Wichita, Kansas, 1896.

“Chris Heller ha presentato istanza di divorzio da Lena Heller presso il tribunale di Common Pleas per negligenza aggravata. A riprova del fatto afferma che la donna si rifiuta di ottemperare alle faccende domestiche e di preparare i pasti, essendo vittima della

mania della bicicletta e trascorrendo in sella quasi tutto il suo tempo in compagnia di persone estranee alle buone maniere”. «Akron Daily Democrat», Akron, Ohio. 1899.

“Domenica la polizia si è imbattuta in un terribile caso di maltrattamento. L’ex consigliere comunale Frank Dietz ha messo i ceppi ai piedi della figlia per non farla uscire di casa. La ragazza voleva andare a spasso con la bicicletta, ma il padre glielo aveva proibito e, temendo che potesse farlo in sua assenza, l’ha incatenata”, «The Des Moines Register», Des Moines, Iowa, 1896.

Questi sono tre brani tratti dal quinto capitolo di un libro strano che mi è capitato di leggere e addirittura gustare, “La magia delle due ruote. Storie e segreti della bicicletta in giro per il mondo” di Jody Rosen (Bollati Boringhieri, 350 pp, 26€ nella versione su carta). Dico strano perché per una volta non mi capita di imbattermi in specie di autobiografie, descrizioni appassionate di congegni meccanici, esaltazioni di questo o quel campione sportivo, e -il peggio- soporifere descrizioni di viaggio. Eppure si tratta di 350 pagine, che ci sarà mai scritto dentro? Di tutto, e in una buona maggioranza di casi narrazioni molto interessanti. Mi sono focalizzato sul quinto capitolo perché si intitola Ciclomania, termine che trovo piuttosto vicino alìi miei gusti ma che da subito tratta del rapporto conflittuale tra i generi agli albori del mezzo più efficiente che l’umanità abbia escogitato. Un conflitto che dura ancora oggi, come si vede dalle notizie che ci giungono da luoghi dove le donne soffrono di segregazione patriarcale avvolta dentro la facile carta stagnola della scusa religiosa, ma anche dalle varie rivendicazioni femministe che stanno riprendendo piede oggi qui e lì sul pianeta con ancora una volta la bici come mezzo di emancipazione.
Ciò che mi ha interessato particolarmente è lo sguardo di Rosen, (scrittore e giornalista statunitense, i suoi articoli su cultura, politica, trasporti e musica sono apparsi su «New York Times Magazine», «The New Yorker», «Slate», «Los Angeles Times») che spesso indugia sul mezzo bici come portatore di sconvolgimento sociale da qualunque lato lo si maneggi. La prima parte del libro esamina per esempio come il mezzo oggi “cavallo del popolo” sia nato come giocattolo per ricchi e abbia avuto la sua prima fase espansiva nelle classi nobiliari, attirandosi dunque le ire delle fasce basse della società. Un capitolo è dedicato ai tempi nostri e al Bhutan, staterello asiatico noto per aver inventato il principio-slogan della “Felicità interna lorda” come misura per valutare le performance economiche al posto del Pil. Qui il lancio della bicicletta come mezzo popolare è avvenuto ancora una volta grazie ad un’iniziativa nobiliare e addirittura concentrata in una sola persona: direttamente il re, anche lui caduto come molti di noi nella fascinazione totalizzante che spesso il mezzo induce. Notevole venire a sapere che in Bhutan non esistono altro che pendenze e dunque la pratica della bici è piuttosto complessa.

Ma è la capacità della bici di generare conflitto che mi interessa particolarmente e, a parte il capitolo finale sul cicloattivismo che non mi ha portato informazioni ulteriori, è il fil rouge che unisce la narrazione. La bici, nata per risolvere problemi, per fattori antropici ancora largamente misteriosi (non ho trovato spiegazioni convincenti da Rosen ma neanche lui se ne capacita) diventa stranamente un mezzo che pone altri problemi e tutti essenzialmente di percezione. Crea tifoserie contrapposte, a volte anche aspramente. In un caso si è anche prestata alla follia della corsa all’oro nel Klondike -esempio lampante di volontà brutale di arricchimento personale a discapito di quasi tutto, vita compresa, quindi lontanuccio dal mio modo di vivere-. Parecchi cercatori scelsero la bici per raggiungere il prima possibile i luoghi di cui si favoleggiava: in quel caso la due ruote si mostrò paradossalmente più veloce persino delle slitte, per motivi che Rosen illustra nei particolari. All’opposto dei cercatori, Rosen segue da vicino anche il pedalatore di un riscò della capitale del Bangladesh, Dacca, che dalla descrizione appare come la scenografia urbana più vicina all’inferno di cui si possa leggere, se non si considerano i libri di Dominique Lapierre.

Nei diversi libri che mi è capitato di leggere sull’argomento “bicicletta” ho travato qui e lì gli argomenti che Rosen tratta, ma non tutti insieme come in questa uscita editoriale.

Le parole per dirlo: sono scontri, non incidenti

Come dentro la classica ruota del criceto siamo costretti periodicamente a ripetere alcune semplici indicazioni lessicali per raccontare dal nostro punto di vista di persone in bicicletta qual sia la cruda realtà delle strade italiane. I risultati peraltro sono miseri perché la narrazione maggioritaria di quella che noi percepiamo come violenza stradale e la quasi totalità dei media tendono a minimizzare rimuovendo l’elemento umano nella responsabilità degli scontri e favorendo inoltre l’idea di una causalità, terribile ma pur sempre aleatoria, negli impatti derivanti dalla veicolarità.
E quindi ricominciamo, su. Ripetete con me: se un evento è ciclico non è casuale ma uno stato ricorrente di cose. Quindi non bisogna parlare di “incidenti” ma di “scontri”. Incidente, accidente, oh mamma mia che caso, guarda tu. Ecco, cominciamo a levarci dalla testa che morire in strada per impatti derivanti dall’uso distorto dei mezzi stradali incidentale: non lo è. Dice: “vabbe’ ma lo scrive lui, si sa che ce l’ha con le macchine” (sottotesto: “ci vuole far tornare al calesse, ‘sto luddista”).
Ci sto e mi prendo la mia parte di responsabilità.
Però giusto martedì scorso è stato presentato uno studio della Lumsa, l’università romana di ispirazione cattolica, dal titolo “L’analisi spazio-temporale degli incidenti stradali di Roma: determinazione delle componenti cicliche e dell’effetto di eccitazione”, coordinata da Antonello Maruotti, ordinario di Statistica, e realizzata da Pierfrancesco Alaimo Di Loro (ricercatore Lumsa) e Marco Mingione (ricercatore Università degli Studi Roma Tre).
Determinazione delle componenti cicliche: a mia memoria è la prima volta che in un papiello scientifico emerge quello che tra gli attivisti di una mobilità moderna è un fatto di assoluta evidenza. Ma si sa, noi siamo dei fricchettoni pauperisti e vediamo tutto sotto “le lenti distorte dell’Ideologia” (pensiero diffuso soprattutto a destra).

In estrema sintesi lo studio rivela che a Roma ci sono tre “incidenti” -aridaje- l’ora, un morto ogni tre giorni, due feriti l’ora. Tra il 2019 e il 2021 gli incidenti su tutto il territorio capitolino sono stati 77.483 di cui 28.499 con almeno un ferito o un morto (rispettivamente 35.748 e 311), per una media annua di 25.828 sinistri di cui 9.500 con almeno un ferito o un morto (rispettivamente 11.916 e 104). Il rischio più elevato è nelle ore centrali della giornata (7.00-19.00), con picchi stimati dalle 8.00 alle 10.00 e dalle 15.30 alle 17.30. Notare la concomitanza con gli orari legati al lavoro, e mandare un pensiero diciamo critico verso chi non vuole lo smart working, o lavoro da remoto, per alimentare l’economia della pausa pranzo è per me un portato sussidiario che non deve distogliere dal punto nodale: spostarsi in città come facciamo dagli anni ’60 è letale.

Luca Valdiserri, il padre di Francesco ucciso da una ragazza in macchina mentre era sul marciapiede, sta conducendo da allora una battaglia per riallineare le parole alla realtà. Fortunatamente scrive per il Corriere della Sera e la sua voce è supportata dal maggior quotidiano italiano, qualcosa si comincia a intravedere nella narrazione collettiva ma ancora troppo lentamente.

Il nostro dovere di adulti consapevoli è dunque di continuare a svelare il re nudo.