Opportunità e traiettorie: la lettura della strada per la propria salvaguardia

Riconosciamolo: non ci sarà nel medio termine alcuna azione pubblica efficace per ridurre il pericolo lungo le strade italiane e nessun incentivo all’aumento della mobilità ciclabile che si basi sul soffocamento delle omicide abitudini italiane alla guida di mezzi pesanti o della riduzione drastica di questi.

Nella condizione data dobbiamo fare da noi, con una tutela personale che al momento vedo come l’unica azione efficace per riportare a casa la pellaccia in una situazione di traffico urbano, incrudelito credo anche a causa dei vari portati psichiatrici del casino plurimo che la specie sta sperimentando ormai da tre anni.

Può anche darsi che io domani schiatti sotto uno di questi decerebrati carrozzati, però negli ultimi vent’anni me la sono cavata piuttosto bene e mi sento di poter dare qualche indicazione che credo possa dare una mano nella tutela di sé in mezzo all’indisturbato autodromo Italia.

Vorrei però farlo proponendo una base strategica che ritengo essenziale e che vedo scarseggiare nei più recenti compagni di sellino. Parlo di quella che chiamo “lettura della strada”: la strada va considerata come un testo che ci interessa e il suo messaggio deve ricevere la nostra attenzione: non è quindi narrativa ma saggistica o se volete generico “studio”. L’esame finale è quando giri la chiave nel portone a fine giornata.

Il testo-strada si offre a noi e dobbiamo coglierne ogni aspetto seguendo due linee d’azione generali di pari importanza e le enuncio in ordine alfabetico: Opportunità e Traiettorie.

E’ “opportunità” qualsiasi vantaggio offerto dallo svolgersi del testo-strada e prescinde dall’osservanza delle normative stradali anche se in parte questa può essere utile. La nostra bassa velocità ci consente di cogliere ogni aspetto del circondario e delle sue caratteristiche. Un esempio: quando un gruppo di persone sta attraversando la strada e a te conviene cambiare lato, lo fai coprendoti con il loro passaggio e a distanza per non disturbare; lo stesso se, nel casino urbano, dei mezzi si autointralciano e lasciano lo spazio per un cambio di percorso più vantaggioso. Altro esempio può essere il tagliare percorso usando scivoli tra loro perpendicolari, e non occupati dai nostri amati pedoni. Altre strutture urbane possono offrire cambi vantaggiosi di percorso o coperture. Quando mi “copro” seguendo queste opportunità penso come se fossi in barca, si chiamano “ridossi”: quando c’è mare una buona opportunità di ridossarsi va colta. Altro esempio, che gli altri faticano a capire: usare il più possibile il contromano, in attesa che l’Italia si allinei al resto d’Europa e lo adotti legalmente. La vista frontale è un potente talismano salvachiappe.

“Traiettorie”: qui dobbiamo usare strategie opposte a quelle dei motorizzati. Se vi fermate a osservare per qualche minuti i flussi vedrete che i motorizzati seguono sempre la stessa traiettoria: non intercettarla per noi è vitale. Loro possono spingersi a velocità maggiori e lo fanno non appena possibile: il flusso, che oggi è imponente se non mostruoso, “lucida” la strada. Ecco quindi che avremo trovato il nostro spazio di non intersezione: la parte opaca di selciato o asfalto. Lì dovremo far scorrere le nostre ruote sottili, che si sia in mano o no. Per chi ha difficoltà nei primi tempi a distinguere subito tra lucido e opaco può essere utile indicazione la presenza di vegetazione spontanea, al cui lato la strada è regolarmente opaca per un tratto apprezzabile, a volte la larghezza di un manubrio.

Mattatoio Roma chiama Italia

La cucina tradizionale romanesca è chiamata “del quinto quarto”: gli operai del mattatoio, a lungo la principale industria della Roma ancora agreste nell’800, venivano pagati con gli scarti delle bestie macellate. Da tempo il mattatoio non c’è più, è rimasto il suo lascito culinario ma la mattanza, con la motorizzazione, si è trasferita nelle strade. Avete saputo tutti della morte del giovanissimo Francesco, ucciso da un’automobilista che gli è piombata sopra mentre era sul marciapiede. In questo periodo a Roma c’è stato un morto al giorno in strada, e ciascuno nel suo intimo si interroga su “quando”, non “se, toccherà a me”. E’ una situazione che tentiamo di nasconderci, soprattutto noi in bici per l’ampio raggio che il mezzo ci consente e quindi l’esposizione a luoghi che declinano diversamente un’ostilità urbana sempre presente. Ma non illudetevi, la situazione della Capitale riflette in pieno il genius loci italico: nello Stivale nessuno può dirsi al sicuro, persino sul marciapiede. A Milano da lunghi anni parcheggiare automobili su ogni marciapiede è un’incontrastata consuetudine di massa, nella convinzione che sia giusto.

Gli italiani -tra poco torno al caso romano- sono immersi nell’acqua dell’automobile e come i pesci probabilmente non riescono a percepirla. Basti solo considerare le pubblicità: negli ultimi anni due case produttrici hanno girato spot a Venezia, e una addirittura dentro gli Uffizi. Alberto Sordi sosteneva che al centro di Roma bisognava andarci con le pantofole: figurarsi.

Nel caso di Francesco l’assurdità del morire su un marciapiede è subito stata immersa nella classica trafila: la sua assassina era ubriaca, ed ecco spiegato il mostro. “Posso continuare a guidare sereno e strafottente, lei era diversa da me”.. Neanche un po’: limiti sforati sempre e ovunque, poco importa se su basolato o autostrada urbana; la convinzione che la mia vettura può tutto, entrare ovunque, fermarsi a piacere, essere presente come inevitabilità condivisa dunque autorizzata. Non esiste automobilista che non contesti la multa, a volte anche dal vivo con gestualità accentuata. Non si contano le liti con chi non ammette critiche al suo comportamento criminale, ma non si può passare la giornata a fare a botte ogni cento metri e quindi via, continuare. Lo sguardo da rettile da dietro i vetri di chi ti incrocia per strada con la tua bici, come ti permetti di esistere e intralciarmi. Un continuo. La consuetudine, quarta fonte normativa nel nostro ordinamento, è un comportamento collettivo fondato sulla convinzione di essere nel giusto (è il caso per esempio del patronimico, ora finalmente affossato dalla Consulta).

A Roma abbiamo sforato gli 80 morti in strada da inizio anno, ho perso il conto. Dopo Francesco ne sono morti almeno altri tre, uno di questi motociclista esperto (meccanico di Motomondiale) contro un albero. Ma la narrazione poi segue la sua solita strada, la colpa è all’esterno: la strada assassina, l’albero killer. Lercio è intervenuto: “psichiatra apre studio per curarli”.
Quando tu vedi, e succede quotidianamente, un’auto ribaltata e variamente frantumata sulla corsia opposta “cause da accertare” un cazzo: tu sei, o eri, ad alta velocità, ubriaco o no. Dunque un criminale.

Voglio qui ricordare Giacomo, morto sotto un tram a Milano, a 12 anni e in bici, per evitare un’auto che non doveva stare dov’era. Ma già dimenticato, e via libera perenne alle auto in città, sciolte da ogni dovere, senza contrasto. D’altronde chi ha la patente vota. A Roma ci sono più auto che patenti. Il conto è facile.

Mattatoio Roma chiama Italia

La cucina tradizionale romanesca è chiamata “del quinto quarto”: gli operai del mattatoio, a lungo la principale industria della Roma ancora agreste nell’800, venivano pagati con gli scarti delle bestie macellate. Da tempo il mattatoio non c’è più, è rimasto il suo lascito culinario ma la mattanza, con la motorizzazione, si è trasferita nelle strade. Avete saputo tutti della morte del giovanissimo Francesco, ucciso da un’automobilista che gli è piombata sopra mentre era sul marciapiede. In questo periodo a Roma c’è stato un morto al giorno in strada, e ciascuno nel suo intimo si interroga su “quando”, non “se, toccherà a me”. E’ una situazione che tentiamo di nasconderci, soprattutto noi in bici per l’ampio raggio che il mezzo ci consente e quindi l’esposizione a luoghi che declinano diversamente un’ostilità urbana sempre presente. Ma non illudetevi, la situazione della Capitale riflette in pieno il genius loci italico: nello Stivale nessuno può dirsi al sicuro, persino sul marciapiede. A Milano da lunghi anni parcheggiare automobili su ogni marciapiede è un’incontrastata consuetudine di massa, nella convinzione che sia giusto.

Gli italiani -tra poco torno al caso romano- sono immersi nell’acqua dell’automobile e come i pesci probabilmente non riescono a percepirla. Basti solo considerare le pubblicità: negli ultimi anni due case produttrici hanno girato spot a Venezia, e una addirittura dentro gli Uffizi. Alberto Sordi sosteneva che al centro di Roma bisognava andarci con le pantofole: figurarsi.

Nel caso di Francesco l’assurdità del morire su un marciapiede è subito stata immersa nella classica trafila: la sua assassina era ubriaca, ed ecco spiegato il mostro. “Posso continuare a guidare sereno e strafottente, lei era diversa da me”.. Neanche un po’: limiti sforati sempre e ovunque, poco importa se su basolato o autostrada urbana; la convinzione che la mia vettura può tutto, entrare ovunque, fermarsi a piacere, essere presente come inevitabilità condivisa dunque autorizzata. Non esiste automobilista che non contesti la multa, a volte anche dal vivo con gestualità accentuata. Non si contano le liti con chi non ammette critiche al suo comportamento criminale, ma non si può passare la giornata a fare a botte ogni cento metri e quindi via, continuare. Lo sguardo da rettile da dietro i vetri di chi ti incrocia per strada con la tua bici, come ti permetti di esistere e intralciarmi. Un continuo. La consuetudine, quarta fonte normativa nel nostro ordinamento, è un comportamento collettivo fondato sulla convinzione di essere nel giusto (è il caso per esempio del patronimico, ora finalmente affossato dalla Consulta).

A Roma abbiamo sforato gli 80 morti in strada da inizio anno, ho perso il conto. Dopo Francesco ne sono morti almeno altri tre, uno di questi motociclista esperto (meccanico di Motomondiale) contro un albero. Ma la narrazione poi segue la sua solita strada, la colpa è all’esterno: la strada assassina, l’albero killer. Lercio è intervenuto: “psichiatra apre studio per curarli”.
Quando tu vedi, e succede quotidianamente, un’auto ribaltata e variamente frantumata sulla corsia opposta “cause da accertare” un cazzo: tu sei, o eri, ad alta velocità, ubriaco o no. Dunque un criminale.

Voglio qui ricordare Giacomo, morto sotto un tram a Milano, a 12 anni e in bici, per evitare un’auto che non doveva stare dov’era. Ma già dimenticato, e via libera perenne alle auto in città, sciolte da ogni dovere, senza contrasto. D’altronde chi ha la patente vota. A Roma ci sono più auto che patenti. Il conto è facile.

Le elezioni viste dal sellino della bici

Un punto fondamentale, che bisogna interiorizzare profondamente, è che non può esistere un partito progressista che non ascolti e anzi a volte ostacoli le istanze progressiste scoperte o intuite e praticate dalla società che vuole progredire. Il Pd non è un partito progressista, è un partito conservatore con operazioni cosmetiche di etica progressista che l’autoassolve dall’essere industrialista, centro di conservazione del potere, fautore della crescita del pil, fiancheggiatore di chi detiene il potere economico (da Confindustria in giù).

Eppure alle élites politiche di ogni genere e in particolare a quelle che si intestano la dicitura progressista lo diciamo da anni. Se vogliamo almeno dal 2001, per me uno spartiacque: Genova soffocata nel sangue è l’atto di divorzio tra élites politiche e popolo progressista. Ma possiamo risalire anche al 1999 (Seattle). E volendo trovare radici più lontane, le fulminanti intuizioni di Henry David Thoreau, precedenti a quelle di Ivan Illich; e ancora più indietro, secondo quanto sostengono Graeber e Wengrow in “L’alba di tutto”, addirittura ai nativi americani che, entrati in contatto con i francesi occupanti, ne criticarono alla radice l’appartenenza a una società -quella europea dell’epoca- intrinsecamente sbagliata: cosa che secondo gli autori portò Rousseau a gettare le basi della Rivoluzione francese.

Diciamo quindi che i segnali e gli esempi possono affondare nei secoli e se proprio non ci va di riconoscerlo almeno dal 2001.

Non solo la sciagurata emersione di figure assurde come le cd “madamine Sì Tav” a Torino, in larga parte elettrici dem, dimostrano la sordità dei cosiddetti progressisti ad accogliere dinamiche di nuovo conio come il rifiuto della devastazione del territorio per la moltiplicazione di utili monetari grazie a progetti evidentemente inutili e dannosi: anche ricordare lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, iniziati da Treu negli anni ’90 e portati a termine da Renzi con il Jobs Act serve a far capire perché i progressisti reali non hanno un’area politica di riferimento. Voglio sottolineare che lo smantellamento dei diritti dei lavoratori è la causa prima dell’esistenza dei rider: Sebastian Galassi, ucciso da un automobilista, è la conseguenza diretta dell’aver abbandonato i giovani alla rapacità neoliberista.

Nel mio campo di attività (proporre un modo diverso di spostarsi) vedo bene questa sordità negli esponenti Pd. La costante è o rubricare “la bicicletta” a questione sì emergente ma marginale, o trattarla da giocattolo o persino irridere la questione. La seconda di queste attitudini è la cifra, per esempio, dell’attuale giunta romana guidata da Gualtieri, con una certa propensione verso l’irrisione se adeguatamente molestata dagli attivisti.

Con una quieta rassegnazione sono andato a votare, l’alleanza tra Si e Verdi: 3,6%, mentre il mio stupido ottimismo mi faceva pronosticare il 6%. Dovrebbe essere a doppia cifra come nel resto d’Europa, ma appunto anche se l’offerta era chiara il consenso non arriva, perché come spiegano bene i giovani di Fff non si ha fiducia nel reale accoglimento dell’urgenza di affrontare un futuro opposto all’economia di rapina che i cosiddetti progressisti hanno sposato. In sintesi: cosa fare non lo so ma la società che pratica e predica il progresso ancora non ha un riferimento politico organizzato, ed è evidente l’urgenza di crearlo.

Le elezioni viste dal sellino della bici

Un punto fondamentale, che bisogna interiorizzare profondamente, è che non può esistere un partito progressista che non ascolti e anzi a volte ostacoli le istanze progressiste scoperte o intuite e praticate dalla società che vuole progredire. Il Pd non è un partito progressista, è un partito conservatore con operazioni cosmetiche di etica progressista che l’autoassolve dall’essere industrialista, centro di conservazione del potere, fautore della crescita del pil, fiancheggiatore di chi detiene il potere economico (da Confindustria in giù).

Eppure alle élites politiche di ogni genere e in particolare a quelle che si intestano la dicitura progressista lo diciamo da anni. Se vogliamo almeno dal 2001, per me uno spartiacque: Genova soffocata nel sangue è l’atto di divorzio tra élites politiche e popolo progressista. Ma possiamo risalire anche al 1999 (Seattle). E volendo trovare radici più lontane, le fulminanti intuizioni di Henry David Thoreau, precedenti a quelle di Ivan Illich; e ancora più indietro, secondo quanto sostengono Graeber e Wengrow in “L’alba di tutto”, addirittura ai nativi americani che, entrati in contatto con i francesi occupanti, ne criticarono alla radice l’appartenenza a una società -quella europea dell’epoca- intrinsecamente sbagliata: cosa che secondo gli autori portò Rousseau a gettare le basi della Rivoluzione francese.

Diciamo quindi che i segnali e gli esempi possono affondare nei secoli e se proprio non ci va di riconoscerlo almeno dal 2001.

Non solo la sciagurata emersione di figure assurde come le cd “madamine Sì Tav” a Torino, in larga parte elettrici dem, dimostrano la sordità dei cosiddetti progressisti ad accogliere dinamiche di nuovo conio come il rifiuto della devastazione del territorio per la moltiplicazione di utili monetari grazie a progetti evidentemente inutili e dannosi: anche ricordare lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, iniziati da Treu negli anni ’90 e portati a termine da Renzi con il Jobs Act serve a far capire perché i progressisti reali non hanno un’area politica di riferimento. Voglio sottolineare che lo smantellamento dei diritti dei lavoratori è la causa prima dell’esistenza dei rider: Sebastian Galassi, ucciso da un automobilista, è la conseguenza diretta dell’aver abbandonato i giovani alla rapacità neoliberista.

Nel mio campo di attività (proporre un modo diverso di spostarsi) vedo bene questa sordità negli esponenti Pd. La costante è o rubricare “la bicicletta” a questione sì emergente ma marginale, o trattarla da giocattolo o persino irridere la questione. La seconda di queste attitudini è la cifra, per esempio, dell’attuale giunta romana guidata da Gualtieri, con una certa propensione verso l’irrisione se adeguatamente molestata dagli attivisti.

Con una quieta rassegnazione sono andato a votare, l’alleanza tra Si e Verdi: 3,6%, mentre il mio stupido ottimismo mi faceva pronosticare il 6%. Dovrebbe essere a doppia cifra come nel resto d’Europa, ma appunto anche se l’offerta era chiara il consenso non arriva, perché come spiegano bene i giovani di Fff non si ha fiducia nel reale accoglimento dell’urgenza di affrontare un futuro opposto all’economia di rapina che i cosiddetti progressisti hanno sposato. In sintesi: cosa fare non lo so ma la società che pratica e predica il progresso ancora non ha un riferimento politico organizzato, ed è evidente l’urgenza di crearlo.

Il rifiuto della sobrietà e le elezioni

La massima confuciana secondo cui chi conosce quale sia il bene e non fa nulla per raggiungerlo è un vile descrive perfettamente le élites contemporanee. Vediamo tutti cosa sta accadendo all’ambiente in cui siamo immersi e di cui siamo parte. Parte attiva ma avida e rapace, senz’altro, ma anche capace di riflessione sui propri errori. Il punto è che questa riflessione è automaticamente diretta verso un risultato che ci fornisca una -presunta- comodità nell’esistenza, qualunque siano le conseguenze della nostra scelta.

In questo senso c’è una connessione tra chi ha in mano i destini dell’umanità, le élites, e l’umanità stessa: il rifiuto della sobrietà, l’unica arma seria che abbiamo per correggere le violenze che ci hanno portato al cambiamento climatico in atto e che personalmente mi preoccupa molto di più di guerre, pandemie e nel recente caso italiano isterie politiche che tratteggiano una classe dirigente inetta e incapace di imprimere una sterzata al nostro modo di stare al mondo.

Un dato che hanno evidenziato le ragazze e i ragazzi dei Fridays for Future riuniti a Torino nei giorni scorsi: “la politica forse sta scegliendo di non ascoltarci: qui non è presente nessun rappresentante di partito. Le assemblee plenarie sono aperte al pubblico, vengono ad ascoltarci studenti, giornalisti, professori. Politici non ne abbiamo visti”, dice una di loro alla giornalista ambientale Francesca Santolini che è andata ad ascoltarli.

In questi giorni di raffazzonata campagna elettorale ho tentato invano di scovare una presa di coscienza ambientalista sostanziale nelle varie figure che si arrogano il diritto di calcare la scena pubblica, passando dalla buffonata del milione di alberi promessi da Berlusconi all’enunciazione della parola “ambiente”, da mettere al centro delle future politiche ma senza azzardarsi a dire come, di Letta. La destra nera invece continua coerentemente nel contrastare il green deal, “da buttare a mare” in nome di Suv e condizionatori e insomma dei soliti beati fattacci nostri: e viva la chiarezza. C’è un dato comune a tutti coloro che in questi giorni stanno sgomitando per avere o riavere il potere: la crescita economica vista come imprescindibile per darci un futuro. So quindi per certo, come i FFF, che andremo a sbattere lungo la stessa pista da bob che ci ha incanalato verso il disastro. Nel frattempo una radiosonda svizzera, il 25 luglio, ha rilevato lo zero termico sulle Alpi a 5184 metri sul livello del mare, quando la media climatologica lo vorrebbe a 3500 msl nei mesi estivi.

Il rifiuto della sobrietà è tutto intorno a noi, e chi -come me attraverso la bandiera bicicletta- si impegna da anni a dimostrare che una presunta scomodità apre orizzonti di incredibile piacevolezza e facilità di esistenza non può che mettere a bilancio la propria estraneità alla corrente maggioritaria dell’umanità, che esulta per calciatori e si scanna per uno smartphone.

Né serve una guida come il Mahatma Gandhi, che portò l’India all’autodeterminazione con gesti simbolico-concreti come filare il cotone al proprio arcolaio o alzare al cielo un pugno di sale autoprodotto: anche gli indiani, ottenuta la libertà da Londra, hanno accantonato quel maestro di vita e seguito la strada della bulimia economica.

In Italia se ti azzardi a dire che non devi usare mai un condizionatore, o che cambiare abitudini alimentari può servire (e non parliamo della bicicletta) ti impalerebbero volentieri. E’ qui la connessione tra élites e base: continuiamo diversamente da prima ma come prima.
Non si vede come gente che ha già oggi un diverso paradigma possa, banalmente, andare a votare.

Il rifiuto della sobrietà e le elezioni

La massima confuciana secondo cui chi conosce quale sia il bene e non fa nulla per raggiungerlo è un vile descrive perfettamente le élites contemporanee. Vediamo tutti cosa sta accadendo all’ambiente in cui siamo immersi e di cui siamo parte. Parte attiva ma avida e rapace, senz’altro, ma anche capace di riflessione sui propri errori. Il punto è che questa riflessione è automaticamente diretta verso un risultato che ci fornisca una -presunta- comodità nell’esistenza, qualunque siano le conseguenze della nostra scelta.

In questo senso c’è una connessione tra chi ha in mano i destini dell’umanità, le élites, e l’umanità stessa: il rifiuto della sobrietà, l’unica arma seria che abbiamo per correggere le violenze che ci hanno portato al cambiamento climatico in atto e che personalmente mi preoccupa molto di più di guerre, pandemie e nel recente caso italiano isterie politiche che tratteggiano una classe dirigente inetta e incapace di imprimere una sterzata al nostro modo di stare al mondo.

Un dato che hanno evidenziato le ragazze e i ragazzi dei Fridays for Future riuniti a Torino nei giorni scorsi: “la politica forse sta scegliendo di non ascoltarci: qui non è presente nessun rappresentante di partito. Le assemblee plenarie sono aperte al pubblico, vengono ad ascoltarci studenti, giornalisti, professori. Politici non ne abbiamo visti”, dice una di loro alla giornalista ambientale Francesca Santolini che è andata ad ascoltarli.

In questi giorni di raffazzonata campagna elettorale ho tentato invano di scovare una presa di coscienza ambientalista sostanziale nelle varie figure che si arrogano il diritto di calcare la scena pubblica, passando dalla buffonata del milione di alberi promessi da Berlusconi all’enunciazione della parola “ambiente”, da mettere al centro delle future politiche ma senza azzardarsi a dire come, di Letta. La destra nera invece continua coerentemente nel contrastare il green deal, “da buttare a mare” in nome di Suv e condizionatori e insomma dei soliti beati fattacci nostri: e viva la chiarezza. C’è un dato comune a tutti coloro che in questi giorni stanno sgomitando per avere o riavere il potere: la crescita economica vista come imprescindibile per darci un futuro. So quindi per certo, come i FFF, che andremo a sbattere lungo la stessa pista da bob che ci ha incanalato verso il disastro. Nel frattempo una radiosonda svizzera, il 25 luglio, ha rilevato lo zero termico sulle Alpi a 5184 metri sul livello del mare, quando la media climatologica lo vorrebbe a 3500 msl nei mesi estivi.

Il rifiuto della sobrietà è tutto intorno a noi, e chi -come me attraverso la bandiera bicicletta- si impegna da anni a dimostrare che una presunta scomodità apre orizzonti di incredibile piacevolezza e facilità di esistenza non può che mettere a bilancio la propria estraneità alla corrente maggioritaria dell’umanità, che esulta per calciatori e si scanna per uno smartphone.

Né serve una guida come il Mahatma Gandhi, che portò l’India all’autodeterminazione con gesti simbolico-concreti come filare il cotone al proprio arcolaio o alzare al cielo un pugno di sale autoprodotto: anche gli indiani, ottenuta la libertà da Londra, hanno accantonato quel maestro di vita e seguito la strada della bulimia economica.

In Italia se ti azzardi a dire che non devi usare mai un condizionatore, o che cambiare abitudini alimentari può servire (e non parliamo della bicicletta) ti impalerebbero volentieri. E’ qui la connessione tra élites e base: continuiamo diversamente da prima ma come prima.
Non si vede come gente che ha già oggi un diverso paradigma possa, banalmente, andare a votare.

La cargo di Fedez e la spocchia di noi ciclisti abituali

Ci penso da un po’, esattamente da quando Fedez ha postato su Instagram un video di lui con i figli a spasso in cargo bike a CityLife, Milano: come mi pongo davanti a questa cosa? Ciò che mi sono risposto è in fondo.

Premessa: non saprei dire se Fedez sia cantante o influencer. Se ho sentito qualche sua canzone è per caso e a mia insaputa. Però so che qualsiasi cosa faccia va a finire sui giornali, positiva, negativa, neutra; altrettanto vale per la sua signora, molto influente sui social, che persino quando mette delle ciabatte di plastica da pochi euro crea un fenomeno. Esattamente non saprei che mestieri facciano ma pare che li facciano bene, se è la fama e quindi i soldi l’obiettivo.
Bene, quindi vedo Fedez, peraltro un bel ragazzo, che pedala -male, sellino basso e ginocchia verso i gomiti, anche loro larghi- questa cargo con dentro la prole e non penso assolutamente niente: per me è ovvio pedalare con prole, o senza. Però va detto che vedo il video dopo una chilometrata o qualcosa meno di interventi un po’ ovunque, media ufficiali, social, mi sembra di aver sentito qualcosa anche su Radio 1, l’ultimo baluardo ufficiale della Democrazia Cristiana in Italia e per cui sempre accesa quando lavoro per capire un po’ come va il paese e quali cose vadano sopite, sedate, smussate, rese sostanzialmente innocue. Realizzato che la cosa era discussa in giro e riguardava le due ruote a pedali, assistite o no, cargo o no, vado un po’ a vedere. E, lo voglio ripetere, resto piuttosto inerte, nel senso che “ok, un giovane padre va in giro con i figli piccoli, e allora? Che è ‘sta cagnara?”.

Ho identificato grosso modo due filoni: i soliti ironici, che con alterne fortune azzeccano o meno battute sul tipo famoso e hanno quei secondi di gloria riflessa, e i ciclisti abituali, gli esperti che da sempre o quasi vivono in bici. Uno di questi sono io e mi ci metto serenamente in mezzo, faccio parte del gruppo “esperti”. Uno di Napoli che conosco li/ci chiama “spertajoli”, con quella fulminea capacità di derisione senza prove di dolo affidata a poche sillabe, specialità che i partenopei maneggiano per istinto e forse succhiata con il latte materno.
Vedo quindi una pioggia, un florilegio, una valanga -nella mia bolla social- di spallucce alzate, pacche sulle spalle all’ultimo arrivato, reazioni stizzite dalle cinture nere di vita in bici in Italia.
E penso: ma saranno scemi? Ma come, una, UNA volta che c’è il tipo famoso, di Milano capitale mondiale delle tendenze, uno che qualsiasi cosa faccia la fa diventare un argomento di discussione, in salute o in malattia, letteralmente qualsiasi, e che ci fa ‘sto po’ po’ di spot ci mettiamo a fare i superbi? Ma saremo scemi?

Voglio dire: sì pedala male; sì s’è svegliato tardi; sì a tutto. Ma una reazione così spocchiosa -da un lato e dall’altro- mi sembra l’ennesima dimostrazione che in testa abbiamo polpa di granchio.


Se fare una ricerca “Fedez cargo bike” vedrete siti improbabili che discettano su questa o quella caratteristica del mezzo. Ovviamente sbagliando parecchio, ma viva Fedez e l’aver costretto spertajoli di vario genere a gettare parole -anche a vanvera- sulle cargo bike.
Però, Fedez: alza-questo-sellino.

Il degrado selettivo dell’intellettuale orbo

Il 6 giugno scorso è stata inviata da 158 intellettuali che vivono a Roma questo appello al direttore del World Heritage Unesco, Lazare Eloundou Assomo, “per segnalare lo stato di degrado in cui versa il Centro storico di Roma, uno dei più importanti siti italiani riconosciuti dal World Heritage”. Si tratta grosso modo dell’interno delle Mura Aureliane più altri possedimenti del Vaticano che sono apparsi di pregio all’organismo Onu: sono “ 1.469,17 ettari dei quali 1.430,8 relativi alla parte italiana (Centro Storico di Roma) e 38,9 di competenza della Santa Sede”. Di seguito il testo della fantastica lettera.
“Denunciamo l’unica città europea che ha ancora il centro invaso, e letteralmente spalmato in ogni dove, da automobili private. Il tutto in un contesto di degrado, incidenti e morti in strada, concentrazione di ossidi di azoto perennemente al disopra della soglia di sicurezza fissata dall’Oms, rumore e disprezzo per la bellezza dei luoghi. I nostri appelli, reiterati da anni, non sono ascoltati. Auspichiamo un richiamo al comune di Roma al suo ruolo di controllo del patrimonio dell’umanità”.


Questo testo non è stato mai inviato. Dopo un’aspra trattativa i 158 Soloni lo hanno cambiato nel seguente: “L’immagine offerta oggi dal Centro storico di Roma, soprattutto nei suoi punti nevralgici, è quella di una invasione di tavolini e di arredi tra i più difformi e invasivi frutto di un’occupazione estesa di suolo pubblico da parte degli esercenti della ristorazione, un’espansione innescata da misure amministrative per l’emergenza Covid. Il tutto in uno scenario generale mortificante, tra erbacce che non vengono tagliate, spazzatura e rifiuti per le strade, rumore e degrado. Il nostro appello all’amministrazione non ha ricevuto risposta e questo scempio minaccia di diventare permanente. Chiediamo dunque al World Heritage di richiamare l’amministrazione della città di Roma ai suoi doveri di controllo. Il nostro auspicio è che venga ripristinato lo stato di decoro adeguato ai valori riconosciuti”.

Dei 158 ne conosco alcuni. Per esempio la vedova di un amatissimo regista italiano: anni fa si lamentava delle macchine che parcheggiavano davanti al suo portone -occasione capitata a molti nella Suburra, me compreso- e ovviamente non riusciva a entrare a casa, salvo poi opporsi alle pedonalizzazioni. O la vedova di uno scrittore molto apprezzato per il suo “Elogio del libertino”, di cui mi è rimasta impressa la pratica dell’uso del mocassino in quanto sfilabile rapidamente nell’insorgenza della denudazione. Un urbanista molto noto che ha messo i bastoni tra le ruote allo stadio della Roma, che ogni Dea lo preservi per la sua capacità di leggere la città. Ne potrei ricordare altri, tutte persone assai distinte e interessanti, a volte davvero eccentriche. Insomma persone perbene e in qualche modo attive in società.
Quanto sono orbi a non vedere l’invasività delle -loro stesse?- autovetture: dagli ultimi dati a Roma sono 820 auto private per ogni 1.000 viventi. La sola Ztl, molto meno estesa della zona Unesco, fa entrare ogni giorno 38.500 veicoli, e con la semplice pratica dell’entrare contromano dai varchi nessuno sa quanti siano davvero. Tutto questo i Soloni fanno finta di non vederlo. Cosa li animi davvero mi sfugge, eppure vivo e socializzo in mezzo a loro.

Matteo Zuppi, un “anarcociclista” a capo dei vescovi italiani

Tempo fa, nel 2019 -quindi in era preCovid quando la logica sociale non era ancora andata in vacanza- mi capitò di scrivere su questo spazio una cosa per me inusuale, cioé una specie di applauso a un pretone, un cardinale, che reggeva la diocesi di Bologna: Matteo Zuppi, che definii “anarcomonsignore” perché fotografato mentre percorreva in bici e in senso inverso una vietta di Bologna. Quello cioé che i motorizzati chiamano “contromano” e noi demotorizzati chiamiamo “senso unico tranne bici”, che sia autorizzato o no.
Ora Zuppi è il capo dei vescovi italiani e siccome sono affezionato a questa figura umana sono andato a trovarlo nel baretto dopo ogni tanto passa a rilassarsi a due passi dalla sua ex parrocchia trasteverina e dalla sede della comunità di S.Egidio, la “diplomazia parallela” del Vaticano. Il bar è il S.Calisto, a Roma un’istituzione popolare da decenni e una specie di succursale di S.Egidio quanto a diplomazia: è l’unico bar romano dove ci sono i simboli sia della Roma sia della Lazio, nessuno fa una piega e il cazzeggio calcistico resta sempre nei limiti del rispetto. Trovi ai tavolini fuori appunto monsignori e gente di margine, i prezzi -bassi- sono identici al bancone e al tavolino, se hai pazienza hai anche il servizio al tavolo senza sovrapprezzo, e in uno dei luoghi più spennaturisti di Roma.

A Trastevere ci lavoro e in pausa pranzo vedo se trovo l’arciprete biciclettaro. C’è, saluto, mi siedo e vado al punto. “Ti volevo dire di questa cosa dell’anarcociclista, non è che te la sei presa?”.

“Ma no, me l’hanno detto a Bologna e sai che c’è? Ho capito la tua disperazione”. Come disperazione… “Sì, vedi io capisco che tu e quelli che si spostano in bici non sapete più che fare per mostrare la semplicità della bici, il suo essere mezzo innocuo in mezzo a questo casino”, indica la piazzetta, formalmente pedonale ma come sempre accade a Roma la misura dell’Eternità è data dall’”attimino” del parcheggio di qualsiasi quattroruote, ovunque. “E che -continua Zuppi- per esempio non si capisce che in mezzo a questo caos un’opportunità in più di tornare vivi a casa è quella di usare la vista frontale di cui ci ha dotato il Signore”, qui qualche agitazione da parte mia che non sono creazionista, ma d’altronde Matteo sta gustando una granita e io accumulo birrette che lui rifiuta, stili diversi insomma. “Non sai quante volte mi sono raccomandato l’anima intorno al Vaticano. Bisogna avere pazienza, e costanza nella divulgazione”.

Non mi azzardo a chiedergli un’omelia perché “da tanto non faccio il parroco”, però magari un’indicazione alle diocesi sparse per l’Italia, visto che ora fa il capo dei vescovi… “Ci posso provare, ma capirai: anche i miei pensano che l’auto elettrica sia mobilità ecologica, non riesco a fargli capire che proprio il mezzo in sé, qualsiasi sia la motorizzazione, è un atto di egoismo nei confronti della società, ruba tempo e spazio a tutti per non parlare dello spreco di risorse e denaro, se ti mette sotto di certo le conseguenze non cambiano, insomma un disastro: ma ci posso provare, se dico a te ‘pazienza e costanza’ io per primo le devo mettere in atto”.

Naturalmente questo dialogo è immaginario, e la parte sulla disperazione l’ho presa dal mio sentire. Ma sono piuttosto certo che Matteo Zuppi, a sollecitarlo su questi argomenti, direbbe esattamente quello che ho disperatamente immaginato.