Manifestazione perenne per dare una spallata alla città dell’automobile

Da qualche tempo si moltiplicano i segnali di una crescente insofferenza per lo stato bieco in cui abbiamo ridotto le nostre città, fatte crescere negli ultimi decenni intorno all’automobile. Al momento si tratta ancora di un sentire diffuso a macchia di leopardo negli strati sociali, ma è in crescita e le varie isolette di pensiero si stanno connettendo lentamente ma con una progressione che mi sembra evidente. Il capostipite di questo sentire è ovviamente la quieta rivoluzione olandese degli anni ’70, che anche grazie alla tipica serietà calvinista di quel popolo riuscì a mettere spalle a terra il modello autocentrico delle città, che era identico a quelle di ogni angolo d’Occidente, e stravolgere l’uso dello spazio pubblico, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti e una vivibilità delle strade e delle piazze tornata, semplicemente, la modello precedente: la città per le persone, cosa che andava avanti dai tempi della scrittura cuneiforme in tutto il globo, e solo con la motorizzazione di massa cancellata dal ricordo di tutti.

Questa nuova risensibilizzazione alla destinazione d’uso delle nostre tane chiamate città è però ancora fragile e bisognosa di farsi un po’ le ossa dure, entrare nella coscienza collettiva. Questo è il senso del manifestare: rendere manifesto un bisogno più che un sogno, una necessità di cambiamento, una strada diversa rispetto a quella recentemente percorsa. Ne parlo spesso e altrettanto spesso mi viene un senso di scoramento di fronte agli scarsi risultati delle tante manifestazioni e flash mob che noi ciclisti urbani mettiamo in campo da anni, ma poi mi passa, mi risale la rabbia per l’ingiustizia sociale della città dell’automobile, disgregatrice e divoratrice di risorse spaziali, economiche, ambientali e mi rimetto in pace con la necessità di manifestare. Questo sembra essere un istinto comune al sempre crescente numero dei compagni di strada, e infatti nei prossimi mesi si susseguiranno alcune azioni per ribadire quanto sopra.

L’Italia, grazie all’eco mediatica suscitata da Milano città 30 km/h, ha scoperto che in realtà ad Olbia era adottata da anni, e che Bologna giusto lo scorso anno ha deliberato la stessa cosa in un atto di giunta (cioé: finanziato e cogente, quindi accadrà). E’ il punto si svolta secondo una serie di associazioni e realtà, ovvero Fiab-Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta, Legambiente, Asvis, Kyoto Club, Vivinstrada, Salvaiciclisti, Fondazione Michele Scarponi, Amodo e Clean Cities Campaign, che per domenica 26 febbraio hanno indetto una manifestazione diffusa, cioè in diverse città italiane, che nel momento in cui scrivo sono arrivare a 17, tra cui Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Perugia, Napoli. E’ il via alla campagna, che si stima perenne, chiamata “Città 30 subito”, in luoghi simbolici scelti dalle realtà locali si formeranno delle strisce pedonale umane: in corrispondenza di attraversamenti pedonali verrà organizzato un pacifico passaggio umano di persone e biciclette per chiedere un cambio di passo nelle politiche della mobilità e informare le persone sui vantaggi del modello città 30. Nella mia città, Roma, abbiamo scelto via Tripolitania: lì fu travolto e ucciso il 29 dicembre scorso Said, il fioraio di zona; luoghi simili -le nostre città sono costellate di sangue umano sacrificato al moloch automobile, purtroppo la scelta è ampia- sono stati scelti nelle altre città. La manifestazione è accompagnata da un vademecum, messo a punto da Edoardo Galatola di Fiab e Andrea Colombo, ex assessore bolognese alla Mobilità e coautore del percorso che ha portato con una forte spinta dal basso a Bologna città 30, che illustra in dettaglio cosa è una città 30 km/h, con una corposa documentazione che naturalmente i contrari al cambiamento non leggeranno mai. Possiamo serenamente includere tra questi il direttore di Quattroruote, che ha recentemente squillato le trombe dell’allarme perché a suo dire contro l’automobile è stata dichiarata una guerra di religione.

Ora che avete smesso di ridere e rimesso nell’armadio i paramenti di Goffredo di Buglione vi interesserà sapere che per il 3 giugno prossimo si sta preparando la terza grande manifestazione nazionale a Roma, per ora promossa in semiclandestinità ma da un cospicuo numero di attori già organizzatori della manifestazione del 28 aprile 2012 che diede il via al movimento Salvaiciclisti. “ Il nostro obiettivo è che il 3 giugno 2023 centomila ciclisti portino un dossier di interventi sul tavolo del Ministro dei Trasporti per chiedere interventi urgenti”, fa sapere il gruppo promotore alla testata Bikeitalia.it. La data non è scelta a caso: oltre a essere sabato, quindi comodo per chi deve raggiungere Roma, è anche il World Bicycle Day, la giornata della bicicletta indetta dall’Onu dal 2018.

Insomma: da questa domenica inizia una spinta continua verso la città riconsegnata alle persone. Se ce l’hanno fatta in Olanda 50 anni fa ce la possiamo fare anche noi, e non tra 50 anni.

Costretti a manifestare da oltre dieci anni: zero esiti

La morte iniqua di Veronica, la giovane donna milanese da poco madre, sotto le ruote di un camion in piena Milano ha innescato la reazione di chi si sposta in bici in quella città. E cadono le braccia a chi sa e ricorda che proprio un fatto analogo a Londra nel 2012 innescò la rivolta dei ciclisti urbani che portò all’inizio di un cambiamento stradale in Uk ancora in atto. La campagna Save Our Cyclist fu adottata anche in Italia, traducendola in Salvaiciclisti, movimento nato in rete grazie al blogger Paolo Pinzuti che chiamò a raccolta gli altri blogger attivi nella ciclabilità: rispondemmo in 38 lanciando la campagna a febbraio e in un crescendo parossistico riuscimmo a portare decine di migliaia di manifestanti lungo via dei Fori Imperiali a Roma il 28 aprile di quell’anno: mai successo prima in Europa e il solo esempio che mi viene in mente è la campagna olandese negli anni ’70 Stop de kindermoord. A iniziare il movimento che trasformò l’Olanda fu un il padre di un bimbo ucciso da un automobilista, che per caso era anche giornalista e pubblicò ciò che pensava proprio con quel titolo, Fermare l’uccisione dei bambini.

E ricadono le braccia a notare che la prima campagna stampa in Italia a sollevare il problema che per alcuni di noi è così evidente da diventare per ciò solo invisibile viene dal Corriere della Sera proprio in seguito al trauma indicibile seguito all’uccisione di Francesco Valdiserri, che era figlio di Luca e Paola, giornalisti di quella testata. In qualche modo anche da noi a volte si riscopre la missione di sorvegliante etico del giornalismo, e come in Olanda e in genere nelle cose umane spesso gli abissi del dolore riescono a innescare una reazione di segno opposto. Solo che da noi stiamo reagendo -forse- mezzo secolo dopo gli olandesi. Si badi bene: i Paesi Bassi degli anni ’70 avevano la stessa identica situazione stradale del resto d’Europa, caos di lamiere, morti, feriti, congestione. Inutile dire che oggi sono il faro della vivibilità negli spazi collettivi.

Noi abbiamo reagito dal basso nel 2012: e come sempre in Italia tante pacche sulle spalle, molti articoli, tanta visibiltà e un italianissimo nulla di fatto, anzi la situazione è peggiorata, la guida si è incrudelita -la mia è una stima esperienziale, a occhio- dopo la pandemia. A Roma siamo già arrivati a 20 morti uccisi da veicolarità dall’inizio dell’anno e siamo solo a febbraio.
La manifestazione di Milano a piazzale Loreto ha visto secondo gli organizzatori circa tremila persone sdraiarsi sul selciato, esporre cartelli autoprodotti. Sono state citate le vittime di violenza stradale ed è stato scandito più volte “Basta morti in strada”, slogan che ripetiamo dai tempi che sopra ho ricordato. Apparentemente invano. Giovedì 9 febbraio a Genova verrà presentato il libro “Le auto non impazziscono. Il valore delle parole, la narrazione sbagliata degli scontri stradali”, di Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, diciassettenne ucciso da un automobilista, con cui si prova almeno a cambiare la percezione degli esiti della violenza stradale nei media, mettendo in luce anche il ruolo nefasto della pubblicità delle auto. Leggere ancora oggi sui giornali italiani parole come “spettacolare incidente” fa venire voglia di scappare da questo inerte paese che continua a masticare i suoi figli in nome di una malintesa libertà di movimento personale, che in realtà è asservimento a un’economia malata e mortale. In Olanda sono riusciti a ribaltare lo stato delle cose, ma loro sono calvinisti e nella loro cultura il favore di Dio si ottiene in corso di vita, non alla fine davanti al confessore.

Il cardine della civiltà occidentale, o della nuova guerra di religione

Avrei volentieri parlato d’altro. Anzi, vorrei sempre parlare d’altro, di quanto è bello e remunerativo e liberatorio muoversi leggermente e senza fare danni per la propria città. Di più: il mio più grande desiderio è di non parlare più di queste cose e dedicarmi ad altro, per esempio riuscire a montare i pannelli fotovoltaici sopra casa mia senza che la soprintendenza ci si metta di mezzo a dire NO. Ma non se ne esce, la semplice idea di Milano “rallentiamo per non farci male” sembra aver colpito nel profondo strati e strati di abitudini consolidate, quasi calcificate: quindi per la terza volta di seguito sono trascinato a registrare nuove vette di nonsense raggiunte dai giannizzeri dell’automobile. Ora tocca all’editoriale del direttore della rivista “Quattroruote”, Gian Luca Pellegrini, dal titolo apocalittico: “La guerra di religione contro l’automobile”, sommarietto centrale “Ormai si sta mettendo in discussione (c’è una terza S in ‘discussione’ nel testo originale, saranno state le mani che tremavano di santa indignazione) il diritto alla mobilità privata”. Mi metto quindi comodo a leggere, più che altro per capire da quale morta gora di pensiero escano toni propri dei talebani o ayatollah. Si parte volando alto, citando tal Tavares che pare essere il capo della Fiat sotto altro nome, e lasciando capire -saranno messaggi interni, vai a sapere- che costui sta per lasciare la guida di Stellantis; e fin qui tutto bene, fatti loro, chissà dov’è ‘sta guerra di religione.

Eccola un bel po’ dopo seguendo questi passaggi: 1) preoccuparsi della sostenibilità dell’automobile 2) interrogarsi sulla transizione ecologica 3) ma (ed ecco il punto) distratti dall’elettrificazione “non ci si accorge che nella società stia germogliando una scuola di pensiero che mette in discussione uno dei capisaldi della civiltà occidentale: il diritto di muoversi in automobile”.

Già fa ridere abbastanza così ma vi assicuro che la cosa peggiora e i tamburi del tempio rullano più forte nel resto del testo, chiamando a raccolta i pasdaran della Vera Fede.

[flashback: una 500 rotola fulminea nella notte romana, rimbalza tra palo, albero e marciapiede. Finisce la giovanissima vita di 5 dei 6 occupanti, non vedranno mai più la luce dopo tale brutale vettorialità]

“Sono le derive estremistiche -prosegue il testo- di un’opposizione pregiudiziale all’automobile”, cosa “rappresentata plasticamente” da Milano a 30km/h. E qui giù legnate sul primo firmatario dell’ormai stranoto odg milanese, Mazzei, che non solo reo di aver chiamato alla jihad antiauto è anche subdolamente riuscito a far “candidamente ammettere” all’assessora Censi la necessità di “andare verso l’abbandono di tutti i mezzi a motore”. Che tipaccio eh.

[flashback: due diciottenni tornano camminando verso casa e parlando tranquillamente nella notte: un’automobilista lanciata sul marciapiede porta via dalla vita Francesco, che prima c’era e ora non c’è più].

Viene citato un tweet “apocalittico” di Mario Tozzi (il popolare divulgatore chiedeva i 30km/h anche a Roma), lo “spirito millenarista” olandese, e via dicendo.

Il testo s’avvia a conclusione: se fosse nell’industria dell’auto, scrive Pellegrini, “inizierei a preoccuparmi di chi vuole la morte della mobilità privata e della filiera”. Secondo lui è una politica “distante dalle esigenze della gente comune”.
[flashback: il sangue di Elvis, fattorino, è ancora sull’asfalto di Piazza dei Re di Roma]

Città a 30 km/h e vittime stradali: esiste il “numero accettabile”?

Il caso di Milano a 30 km/h ha sollevato un vespaio in tutta Italia. Poco importa che altre città hanno scelto da anni questo nuovo limite di velocità, ma essendo centri meno grandi ed essendo Milano la New York d’Italia, come qualcuno la definisce un po’ sopra le righe, quello innescato dall’ordine del giorno approvato in consiglio comunale il 9 gennaio scorso è diventato l’ennesima guerra civile nel solco dei paradigmatici Guelfi e Ghibellini.

Il carattere bullistico di chi è contrario non conosce differenze di classe: si va dallo studioso o sedicente tale, comunque acculturato, al somaro da web cui ormai abbiamo fatto il callo. Il carattere assolutista di chi è a favore, categoria a cui mi ascrivo, non sembra però attrarre simpatie tra chi dice vediamo, proviamo, se lo stanno facendo nel resto del mondo con questa e quella documentazione scientifica qualcosa vorrà pur dire. Nessuna sorpresa, è carattere nazionale.

Degli aspetti inquietanti, e delle uscite semi isteriche, della prima ora ne ho già parlato in quell’occasione; mi sono dunque messo alla finestra, con una certa trepidazione da voyeur, in attesa di nuove sorprendenti uscite. Inevitabilmente ciò è accaduto, in vari modi. Il primo è che l’area “amici della mia automobile” sta conumandosi le unghie sugli specchi per dimostrare che i motori endotermici moderni inquinano meno a 70 km/h, pare sia annunciato uno “studio francese” che lo dimostri.

Però c’è un’obiezione più subdola, e dotata di una robusta dose di cinismo, che sta circolando in questi giorni: c’è chi sostiene (tra gli altri Francesco Ramella su Tempi.it, un paladino dell’automotive e sarcastico cantore delle pochezze del fricchettone ciclista come veniamo percepiti tra chi compra le paste la domenica dopo la messa) che se si guarda all’effetto sulla sicurezza stradale di Milano, il bersaglio è già stato raggiunto negli ultimi anni. Come? Cosa?, si chiede lo stupito osservatore del rosario di morti e feriti che costella le cronache. Come ci può essere sfuggito tale meraviglioso obiettivo? Il meccanismo per emanare questa sorprendente affermazione è semplice: negli ultimi tre decenni le vittime sono calate. Sia tra i morti sia tra i feriti. Per i morti si è passati dai 120 del ’91 ai 34 del 2021. Un picco inferiore si è registrato solo nel 2020, quando si era in pieno regime di restizioni da Covid. I feriti invece passano dal picco di 24.858 del 2001 ai 10.000 del 2021. Ecco fatto, la situazione è già migliorata, non abbiamo bisogno di altro, grazie e arrivederci a Milano 30.

C’è da chiedersi se possa esistere un numero accettabile di morti e feriti dunque. A leggere tali castronerie pare di sì, e pazienza se si riconosce che il risultato sia stato ottenuto sia con miglioramenti tecnologici sia, leggo, “alle politiche adottate a livello locale”, e cos’altro sarebbe il limite generalizzato a 30 km/h però non viene minimamente messo in conto.

Penso che chiunque sostenga anche indirettamente una posizione simile sia, al meglio, un cinico di buon spessore, e non nel senso filosofico originario.

Scavando tra la melma social si trova anche qualche perla: per esempio a 30 km/h le moto non stanno in equilibrio. Qui si entra nella psicosi.

Nel frattempo il povero Sala, proprio prima delle regionali, cerca di mettere pezze alle polemiche dice ma no, non subito, non in tutta la città, vedremo, se ne parla, è un suggerimento: e tanto per dimostrare di essere sul pezzo volerà (a 7 anni dalla prima elezione) a Londra e Parigi per studiare cos’hanno fatto Sadiq Khan e Hidalgo. Meglio tardi che mai.

Chi va piano va sano e va lontano

“Volete demolire questa città”. Questa è la frase più moderata espressa dalla destra in consiglio comunale di Milano durante la discussione sull’ordine del giorno che impegna la giunta Sala a istituire il limite di velocità a 30 kmh. Il virgolettato è del consigliere Fdi Marcora, cui do atto di aver espresso pacatamente -a differenza della sua collega leghista Sardone- la sua contrarietà. L’Odg è stato firmato da 27 consiglieri di maggioranza e accolto dall’assessora Censi, infine appovato. Vedere la discussione del consiglio sul punto, disponibile su YouTube, è illuminante e consiglio chiunque di vederlo anche se so che avete di meglio da fare. Ma vi si mostra, in tutta la sua evidenza, la differenza antropologica tra la destra italiana e quella che viene chiamata sinistra e che io chiamo progressismo moderato.

C’è qualcosa di straniante nella difesa di un sistema obbiettivamente assassino, persino da parte di gente che si autoproclama esponente del buon senso, della tradizione in salsa tricolore, della difesa di patria&famiglia e tutto l’armamentario conservatore. Persino io che mi trovo dall’altra parte della barricata e che per natura rifuggo dall’odore muffito che sprigiona dai benpensanti ricordo che esiste un detto tradizionale italiano, “chi va piano va sano e va lontano”: che è alla base dell’iniziativa a prima firma Mazzei, compagno di strada della prima ondata del cicloattivismo ormai più che ventennale.

La furia con cui la destra, capofila Salvini, si è scagliata contro una misura di salvaguardia delle persone a fronte di un uso sregolato delle strade è però comprensibile: c’è la naturale propensione al primato dell’individuo versus la collettività, all’interpretazione della libertà -bene supremo, ce lo ricordano i manifestanti in Iran- come esercizio del proprio comodo, poco importa se a scapito altrui, a quel fumoso sentimento di autoaffermazione attraverso la prevaricazione che è proprio delle anime nere. Di fronte a una misura che semplicemente dice “rallentiamo per evitare morti e feriti”, assai documentata nell’ordine del giorno della discordia, esplode la rivolta dell’individuo che si sente umiliato nell’espressione della sua libertà di sgommare, e voialtri levatevi da davanti altrimenti vi acciacco e ve lo siete pure meritato.

Nella discussione che dal 9 gennaio ogni tanto vado a rivedere c’è un momento direi commovente, e non me lo aspettavo da un’esponente Pd, in cui la consigliera Tosoni si rivolge alla destra dicendo “è il mondo che sta andando in questa direzione, è il tempo, il momento che vi smentirà clamorosamente”. La consigliera sembra quasi scioccata dalla reazione della destra e a volte incespica nelle parole, ripetendo che è il mondo eccetera, “anacronismo allucinante” e quant’altro. Viene voglia di abbracciarla per consolarla.

La documentazione sui benefici della misura è imponente. Luca Studer, responsabile del laboratorio Mobilità del Politecnico milanese, segnala che, applicandola, a Toronto l’incidentalità “rilevante”, quella con morti o feriti, è scesa del 60%, a Londra del 40%, a Bruxelles dl 25%.

Il rancore via social è stato rilevante. Mazzei afferma di non poter più aprire Twitter per gli insulti, che però gli arrivano anche via mail ordinaria; il padre di Francesco Valdiserri, Luca, twitta di lasciare il social dopo la sequela di ragli che gli è arrivata, uno di questi gli consigliava di non andare a piedi perché è pericoloso. Francesco, 18 anni, è stato ammazzato sul marciapiede da un’automobilista.

E’ inquietante questo odio verso la vita (degli altri) così ben espresso dalle anime oscure in mezzo a noi.

Appia Antica patrimonio dell’automobile con la benedizione del ministero dei Trasporti

Questa che sto per narrarvi è una vicenda kafkiana, degna del miglior Frassineti, il cantore faentino della distopia burocratica italiana. Si parla dell’Appia Antica e di come interrompere il costante flusso automobilistico lungo quel monumento lineare, da poco candidato dal ministero della Cultura come patrimonio Unesco dell’umanità. Un ripassino di storia: iniziata da Appio Claudio nel 312 a.C., è stata poi terminata e migliorata (con Traiano anche raddoppiata con un nuovo percorso) in epoca imperiale a partire da Augusto fino ad Adriano. Nomi e tempi che evocano il mito, e lo voglio sottolineare. Oggi, e fin dall’avvio della motorizzazione di massa, è regolarmente percorsa da fiumi di automobili che la usano per tagliare la più moderna Appia Nuova e raggiungere o lasciare il centro monumentale di Roma.

Da tempo, anche grazie a un’intuizione del ’97 che seguiva tardivamente le illuminate indicazioni di Antonio Cederna, si ragiona timidamente su come liberare questo monumento orizzontale dalle gomme delle vetture a motore. Il presidente dell’Ente parco, Mario Tozzi, periodicamente lancia appelli per ciò, ripreso dai media e inascoltato dall’Italia. Negli ultimi anni il comune di Roma ha deciso di fare sul serio. Studiando e progettando, si è arrivati alla conclusione che, in attesa di una presa di coscienza collettiva, l’unico modo per limitare fortemente il traffico era istituire una Ztl forte, con impianti elettronici a controllarla. Ciò che sta succedendo negli ultimi mesi è raccapricciante.

Il Campidoglio, ad agosto scorso, chiede un parere preventivo al ministero dei Trasporti (prima dei fratelli di taglia “Mobilità sostenibile”), chiarendo che i varchi sarebbero stati “una sperimentazione”, formula che si usa per evitare un secco no.

Il ministero risponde circa un mese fa. Qui alcuni estratti del parere. Premesso che “ad oggi non è possibile l’installazione di sistemi di controllo negli ambiti diversi dalle Ztl urbane e dai centri storici, nelle more dell’entrata in vigore del previsto Regolamento, in corso di predisposizione da parte di questo Ministero”, Porta Pia aggiunge altre considerazioni stupefacenti e in parte perfide come vedrete. Analizzando il “delicato contesto”, il ministero ricorda che è ancora in vigore la chiusura al traffico privato del ’97 e che questa è demandata ai vigili urbani; il divieto successivo in un tratto precedente al Primo Miglio “risulta spesso disatteso, anche a causa di una segnaletica non corretta e intelligibile in relazione alla complessità dell’intersezione di Piazzale Numa Pompilio”. Poi la perfidia: siccome il percorso è oggi parte del Grab, la ciclovia turistica anulare finanziata dallo stesso ministero, “nella fase di progettazione di qualsiasi schema di circolazione stradale interessante i predetti tratti stradali sarà necessario tenere conto di tale infrastruttura ciclabile”. Infine il capolavoro: “risulta necessario analizzare un contesto ben più ampio teso a trovare specifiche soluzioni, eventualmente articolate e differenziate per i giorni feriali e festivi, che possano conciliare le esigenze dei residenti e delle attività economiche, compatibili con la vocazione turistica del Parco dell’Appia Antica”. La Ztl, sottolineo, è aperta a residenti e commercianti ma il ministero fa finta di non saperlo.

Pochi giorni fa l’ex senatrice dei Verdi e oggi presidente di Roma mobilità, Anna Donati, aveva definito la tutela della Regina Viarum “un atto che riguarda il mondo intero”. Tranne, ovvio, il ministero di Porta Pia.

Rebellin: una lettera aperta mai spedita da noi giornalisti

Ho immaginato che questa lettera aperta dei giornalisti che si occupano di bicicletta in senso lato fosse una necessità urgente, dopo l’orribile morte di Davide Rebellin a causa di un camionista criminale. Avrete visto, nelle foto che girano, la bici variamente piegata come un foglio A4, un amico della zona mi ha scritto che il corpo era conciato di conseguenza. Di seguito la lettera.

“Nel nostro quotidiano lavoro di giornalisti e appassionati della bicicletta a 360 gradi -sport, viaggio, passeggiata, trasporto individuale quotidiano- dobbiamo confrontarci sia per dovere sia per effettivo interesse con la pochezza culturale della società italiana di fronte alle morti in strada.

Denunciamo in particolare la miopia e la mancata comprensione delle dinamiche trasportistiche moderne di chi si occupa professionalmente di ciclismo, a ogni livello e in qualsiasi istituzione: a ogni morto ucciso in strada dai mezzi pesanti assistiamo sempre alla solita giaculatoria “bisogna rispettarsi tutti, automobilisti e ciclisti”, “servono impianti dedicati”, “il governo che fa”.

In parte è buttare la palla in tribuna, in parte è non vedere lo stato abietto delle strade italiane, territorio incontrastato dei predatori a 4 ruote che falciano giovani e meno giovani vite, persone ignote o campioni come ieri Davide Rebellin e l’altro ieri Michele Scarponi.

Noi siamo parte del sistema dell’informazione e sappiamo come va: grande emozione sul momento, in attesa di rimuovere il prima possibile l’orrore dalle nostre vite quotidiane, e continuare a vivere le proprie vite nell’eterno tran tran di invadere, in perfetta solitudine ciascuno nel suo abitacolo, le strade delle nostre città e della nostra Italia, ultima nella sicurezza stradale e prima per densità di mezzi di trasporto motorizzati in Europa.

Nessuno dei protagonisti del dibattito pubblico osa indicare la motorizzazione di massa, cresciuta in modo sia incontrollato sia incentivato da industria e amministrazione, come causa prima delle morti in strada. Si evoca la fatalità e il destino cinico e baro.

Ci serve una decisa inversione di marcia ma l’arretratezza culturale italiana è palese, e vogliamo denunciarla.

Non esistono le strade killer, killer è chi guida e la strada è un nastro inerte.

Non esiste il rispetto per chi non ha rispetto di te e lo dimostra quotidianamente, fino all’esito scontato.

Non può esistere equiparazione tra le presenze su strada e la rimozione forse interessata (quanti sono gli sponsor dell’automotive nel mondo sportivo?) della fonte primaria di ciò che sta uccidendo il meglio dello sport italiano e che non ne consente la crescita perché nessun genitore farebbe fare oggi ciclismo su strada ai propri figli.

Come operatori dell’informazione, osservatori e propagatori di cultura ciclistica lanciamo l’allarme per ciò che è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere: un cambiamento reale passa necessariamente dalla presa d’atto di un salto culturale. Che le istituzioni sportive, amministrative e italiane attuali di ogni genere non sono, palesemente, in grado o di comprendere o, nei rari casi, di portare avanti con il necessario vigore.”

Questa lettera non è ancora apparsa una necessità. Il me bambino non capisce il perché.
Il me adulto, italiano, invece sì. Troppo denso il carcinoma automobilistico in ogni aspetto della vita italiana. Troppo vasta la colonizzazione delle anime, dell’immaginario, degli interessi economici, del falso assioma che appartiene anche alla sinistra operaista “industria auto uguale lavoro, ricchezza”.
Il me adulto ascolta il bimbo e si vergogna profondamente dello stato abietto di questo paese.

Opportunità e traiettorie: la lettura della strada per la propria salvaguardia

Riconosciamolo: non ci sarà nel medio termine alcuna azione pubblica efficace per ridurre il pericolo lungo le strade italiane e nessun incentivo all’aumento della mobilità ciclabile che si basi sul soffocamento delle omicide abitudini italiane alla guida di mezzi pesanti o della riduzione drastica di questi.

Nella condizione data dobbiamo fare da noi, con una tutela personale che al momento vedo come l’unica azione efficace per riportare a casa la pellaccia in una situazione di traffico urbano, incrudelito credo anche a causa dei vari portati psichiatrici del casino plurimo che la specie sta sperimentando ormai da tre anni.

Può anche darsi che io domani schiatti sotto uno di questi decerebrati carrozzati, però negli ultimi vent’anni me la sono cavata piuttosto bene e mi sento di poter dare qualche indicazione che credo possa dare una mano nella tutela di sé in mezzo all’indisturbato autodromo Italia.

Vorrei però farlo proponendo una base strategica che ritengo essenziale e che vedo scarseggiare nei più recenti compagni di sellino. Parlo di quella che chiamo “lettura della strada”: la strada va considerata come un testo che ci interessa e il suo messaggio deve ricevere la nostra attenzione: non è quindi narrativa ma saggistica o se volete generico “studio”. L’esame finale è quando giri la chiave nel portone a fine giornata.

Il testo-strada si offre a noi e dobbiamo coglierne ogni aspetto seguendo due linee d’azione generali di pari importanza e le enuncio in ordine alfabetico: Opportunità e Traiettorie.

E’ “opportunità” qualsiasi vantaggio offerto dallo svolgersi del testo-strada e prescinde dall’osservanza delle normative stradali anche se in parte questa può essere utile. La nostra bassa velocità ci consente di cogliere ogni aspetto del circondario e delle sue caratteristiche. Un esempio: quando un gruppo di persone sta attraversando la strada e a te conviene cambiare lato, lo fai coprendoti con il loro passaggio e a distanza per non disturbare; lo stesso se, nel casino urbano, dei mezzi si autointralciano e lasciano lo spazio per un cambio di percorso più vantaggioso. Altro esempio può essere il tagliare percorso usando scivoli tra loro perpendicolari, e non occupati dai nostri amati pedoni. Altre strutture urbane possono offrire cambi vantaggiosi di percorso o coperture. Quando mi “copro” seguendo queste opportunità penso come se fossi in barca, si chiamano “ridossi”: quando c’è mare una buona opportunità di ridossarsi va colta. Altro esempio, che gli altri faticano a capire: usare il più possibile il contromano, in attesa che l’Italia si allinei al resto d’Europa e lo adotti legalmente. La vista frontale è un potente talismano salvachiappe.

“Traiettorie”: qui dobbiamo usare strategie opposte a quelle dei motorizzati. Se vi fermate a osservare per qualche minuti i flussi vedrete che i motorizzati seguono sempre la stessa traiettoria: non intercettarla per noi è vitale. Loro possono spingersi a velocità maggiori e lo fanno non appena possibile: il flusso, che oggi è imponente se non mostruoso, “lucida” la strada. Ecco quindi che avremo trovato il nostro spazio di non intersezione: la parte opaca di selciato o asfalto. Lì dovremo far scorrere le nostre ruote sottili, che si sia in mano o no. Per chi ha difficoltà nei primi tempi a distinguere subito tra lucido e opaco può essere utile indicazione la presenza di vegetazione spontanea, al cui lato la strada è regolarmente opaca per un tratto apprezzabile, a volte la larghezza di un manubrio.

Mattatoio Roma chiama Italia

La cucina tradizionale romanesca è chiamata “del quinto quarto”: gli operai del mattatoio, a lungo la principale industria della Roma ancora agreste nell’800, venivano pagati con gli scarti delle bestie macellate. Da tempo il mattatoio non c’è più, è rimasto il suo lascito culinario ma la mattanza, con la motorizzazione, si è trasferita nelle strade. Avete saputo tutti della morte del giovanissimo Francesco, ucciso da un’automobilista che gli è piombata sopra mentre era sul marciapiede. In questo periodo a Roma c’è stato un morto al giorno in strada, e ciascuno nel suo intimo si interroga su “quando”, non “se, toccherà a me”. E’ una situazione che tentiamo di nasconderci, soprattutto noi in bici per l’ampio raggio che il mezzo ci consente e quindi l’esposizione a luoghi che declinano diversamente un’ostilità urbana sempre presente. Ma non illudetevi, la situazione della Capitale riflette in pieno il genius loci italico: nello Stivale nessuno può dirsi al sicuro, persino sul marciapiede. A Milano da lunghi anni parcheggiare automobili su ogni marciapiede è un’incontrastata consuetudine di massa, nella convinzione che sia giusto.

Gli italiani -tra poco torno al caso romano- sono immersi nell’acqua dell’automobile e come i pesci probabilmente non riescono a percepirla. Basti solo considerare le pubblicità: negli ultimi anni due case produttrici hanno girato spot a Venezia, e una addirittura dentro gli Uffizi. Alberto Sordi sosteneva che al centro di Roma bisognava andarci con le pantofole: figurarsi.

Nel caso di Francesco l’assurdità del morire su un marciapiede è subito stata immersa nella classica trafila: la sua assassina era ubriaca, ed ecco spiegato il mostro. “Posso continuare a guidare sereno e strafottente, lei era diversa da me”.. Neanche un po’: limiti sforati sempre e ovunque, poco importa se su basolato o autostrada urbana; la convinzione che la mia vettura può tutto, entrare ovunque, fermarsi a piacere, essere presente come inevitabilità condivisa dunque autorizzata. Non esiste automobilista che non contesti la multa, a volte anche dal vivo con gestualità accentuata. Non si contano le liti con chi non ammette critiche al suo comportamento criminale, ma non si può passare la giornata a fare a botte ogni cento metri e quindi via, continuare. Lo sguardo da rettile da dietro i vetri di chi ti incrocia per strada con la tua bici, come ti permetti di esistere e intralciarmi. Un continuo. La consuetudine, quarta fonte normativa nel nostro ordinamento, è un comportamento collettivo fondato sulla convinzione di essere nel giusto (è il caso per esempio del patronimico, ora finalmente affossato dalla Consulta).

A Roma abbiamo sforato gli 80 morti in strada da inizio anno, ho perso il conto. Dopo Francesco ne sono morti almeno altri tre, uno di questi motociclista esperto (meccanico di Motomondiale) contro un albero. Ma la narrazione poi segue la sua solita strada, la colpa è all’esterno: la strada assassina, l’albero killer. Lercio è intervenuto: “psichiatra apre studio per curarli”.
Quando tu vedi, e succede quotidianamente, un’auto ribaltata e variamente frantumata sulla corsia opposta “cause da accertare” un cazzo: tu sei, o eri, ad alta velocità, ubriaco o no. Dunque un criminale.

Voglio qui ricordare Giacomo, morto sotto un tram a Milano, a 12 anni e in bici, per evitare un’auto che non doveva stare dov’era. Ma già dimenticato, e via libera perenne alle auto in città, sciolte da ogni dovere, senza contrasto. D’altronde chi ha la patente vota. A Roma ci sono più auto che patenti. Il conto è facile.

Le elezioni viste dal sellino della bici

Un punto fondamentale, che bisogna interiorizzare profondamente, è che non può esistere un partito progressista che non ascolti e anzi a volte ostacoli le istanze progressiste scoperte o intuite e praticate dalla società che vuole progredire. Il Pd non è un partito progressista, è un partito conservatore con operazioni cosmetiche di etica progressista che l’autoassolve dall’essere industrialista, centro di conservazione del potere, fautore della crescita del pil, fiancheggiatore di chi detiene il potere economico (da Confindustria in giù).

Eppure alle élites politiche di ogni genere e in particolare a quelle che si intestano la dicitura progressista lo diciamo da anni. Se vogliamo almeno dal 2001, per me uno spartiacque: Genova soffocata nel sangue è l’atto di divorzio tra élites politiche e popolo progressista. Ma possiamo risalire anche al 1999 (Seattle). E volendo trovare radici più lontane, le fulminanti intuizioni di Henry David Thoreau, precedenti a quelle di Ivan Illich; e ancora più indietro, secondo quanto sostengono Graeber e Wengrow in “L’alba di tutto”, addirittura ai nativi americani che, entrati in contatto con i francesi occupanti, ne criticarono alla radice l’appartenenza a una società -quella europea dell’epoca- intrinsecamente sbagliata: cosa che secondo gli autori portò Rousseau a gettare le basi della Rivoluzione francese.

Diciamo quindi che i segnali e gli esempi possono affondare nei secoli e se proprio non ci va di riconoscerlo almeno dal 2001.

Non solo la sciagurata emersione di figure assurde come le cd “madamine Sì Tav” a Torino, in larga parte elettrici dem, dimostrano la sordità dei cosiddetti progressisti ad accogliere dinamiche di nuovo conio come il rifiuto della devastazione del territorio per la moltiplicazione di utili monetari grazie a progetti evidentemente inutili e dannosi: anche ricordare lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, iniziati da Treu negli anni ’90 e portati a termine da Renzi con il Jobs Act serve a far capire perché i progressisti reali non hanno un’area politica di riferimento. Voglio sottolineare che lo smantellamento dei diritti dei lavoratori è la causa prima dell’esistenza dei rider: Sebastian Galassi, ucciso da un automobilista, è la conseguenza diretta dell’aver abbandonato i giovani alla rapacità neoliberista.

Nel mio campo di attività (proporre un modo diverso di spostarsi) vedo bene questa sordità negli esponenti Pd. La costante è o rubricare “la bicicletta” a questione sì emergente ma marginale, o trattarla da giocattolo o persino irridere la questione. La seconda di queste attitudini è la cifra, per esempio, dell’attuale giunta romana guidata da Gualtieri, con una certa propensione verso l’irrisione se adeguatamente molestata dagli attivisti.

Con una quieta rassegnazione sono andato a votare, l’alleanza tra Si e Verdi: 3,6%, mentre il mio stupido ottimismo mi faceva pronosticare il 6%. Dovrebbe essere a doppia cifra come nel resto d’Europa, ma appunto anche se l’offerta era chiara il consenso non arriva, perché come spiegano bene i giovani di Fff non si ha fiducia nel reale accoglimento dell’urgenza di affrontare un futuro opposto all’economia di rapina che i cosiddetti progressisti hanno sposato. In sintesi: cosa fare non lo so ma la società che pratica e predica il progresso ancora non ha un riferimento politico organizzato, ed è evidente l’urgenza di crearlo.