“La magia della bicicletta” è anche la sua capacità di generare conflitto sociale

“La bicicletta è assurta a un nuovo ruolo: quello di rovinafamiglie. La donna in questione è la signora Elma J. Dennison, di anni 23, residente a Brooklyn al 513 della Quinta Strada. Una «ragazza in bicicletta» che monta un veicolo da uomo e indossa pantaloni alla zuava. Sposata con Charles H. Dennison nel 1892, era dedita alle faccende domestiche, accresciute dall’arrivo di due graziosi bambini, fino al fatidico momento in cui il marito le ha regalato una bicicletta. Il signor Dennison racconta che la moglie è caduta vittima della febbre della bicicletta fino ad arrivare a trascurare tutto il resto: casa, figli e marito stesso. Viveva solo per la dueruote, e in sella a essa. In poco tempo è passata al modello da uomo, abbandonando le gonne in favore dei calzoni alla zuava. Da quel momento la signora dice che il coniuge ha cominciato a maltrattarla, tanto che è stata costretta a lasciarlo e ad avviare una causa di separazione per vessazione. Il signor Dennison sostiene che la moglie sia una maniaca della bicicletta e avanza come prova un messaggio ricevuto di recente: «Caro marito, incontriamoci all’angolo tra la Terza e la Settima, portami i pantaloni neri, una latta di lubrificante e la chiave inglese»”. “The Wichita Daily Eagle”Wichita, Kansas, 1896.

“Chris Heller ha presentato istanza di divorzio da Lena Heller presso il tribunale di Common Pleas per negligenza aggravata. A riprova del fatto afferma che la donna si rifiuta di ottemperare alle faccende domestiche e di preparare i pasti, essendo vittima della

mania della bicicletta e trascorrendo in sella quasi tutto il suo tempo in compagnia di persone estranee alle buone maniere”. «Akron Daily Democrat», Akron, Ohio. 1899.

“Domenica la polizia si è imbattuta in un terribile caso di maltrattamento. L’ex consigliere comunale Frank Dietz ha messo i ceppi ai piedi della figlia per non farla uscire di casa. La ragazza voleva andare a spasso con la bicicletta, ma il padre glielo aveva proibito e, temendo che potesse farlo in sua assenza, l’ha incatenata”, «The Des Moines Register», Des Moines, Iowa, 1896.

Questi sono tre brani tratti dal quinto capitolo di un libro strano che mi è capitato di leggere e addirittura gustare, “La magia delle due ruote. Storie e segreti della bicicletta in giro per il mondo” di Jody Rosen (Bollati Boringhieri, 350 pp, 26€ nella versione su carta). Dico strano perché per una volta non mi capita di imbattermi in specie di autobiografie, descrizioni appassionate di congegni meccanici, esaltazioni di questo o quel campione sportivo, e -il peggio- soporifere descrizioni di viaggio. Eppure si tratta di 350 pagine, che ci sarà mai scritto dentro? Di tutto, e in una buona maggioranza di casi narrazioni molto interessanti. Mi sono focalizzato sul quinto capitolo perché si intitola Ciclomania, termine che trovo piuttosto vicino alìi miei gusti ma che da subito tratta del rapporto conflittuale tra i generi agli albori del mezzo più efficiente che l’umanità abbia escogitato. Un conflitto che dura ancora oggi, come si vede dalle notizie che ci giungono da luoghi dove le donne soffrono di segregazione patriarcale avvolta dentro la facile carta stagnola della scusa religiosa, ma anche dalle varie rivendicazioni femministe che stanno riprendendo piede oggi qui e lì sul pianeta con ancora una volta la bici come mezzo di emancipazione.
Ciò che mi ha interessato particolarmente è lo sguardo di Rosen, (scrittore e giornalista statunitense, i suoi articoli su cultura, politica, trasporti e musica sono apparsi su «New York Times Magazine», «The New Yorker», «Slate», «Los Angeles Times») che spesso indugia sul mezzo bici come portatore di sconvolgimento sociale da qualunque lato lo si maneggi. La prima parte del libro esamina per esempio come il mezzo oggi “cavallo del popolo” sia nato come giocattolo per ricchi e abbia avuto la sua prima fase espansiva nelle classi nobiliari, attirandosi dunque le ire delle fasce basse della società. Un capitolo è dedicato ai tempi nostri e al Bhutan, staterello asiatico noto per aver inventato il principio-slogan della “Felicità interna lorda” come misura per valutare le performance economiche al posto del Pil. Qui il lancio della bicicletta come mezzo popolare è avvenuto ancora una volta grazie ad un’iniziativa nobiliare e addirittura concentrata in una sola persona: direttamente il re, anche lui caduto come molti di noi nella fascinazione totalizzante che spesso il mezzo induce. Notevole venire a sapere che in Bhutan non esistono altro che pendenze e dunque la pratica della bici è piuttosto complessa.

Ma è la capacità della bici di generare conflitto che mi interessa particolarmente e, a parte il capitolo finale sul cicloattivismo che non mi ha portato informazioni ulteriori, è il fil rouge che unisce la narrazione. La bici, nata per risolvere problemi, per fattori antropici ancora largamente misteriosi (non ho trovato spiegazioni convincenti da Rosen ma neanche lui se ne capacita) diventa stranamente un mezzo che pone altri problemi e tutti essenzialmente di percezione. Crea tifoserie contrapposte, a volte anche aspramente. In un caso si è anche prestata alla follia della corsa all’oro nel Klondike -esempio lampante di volontà brutale di arricchimento personale a discapito di quasi tutto, vita compresa, quindi lontanuccio dal mio modo di vivere-. Parecchi cercatori scelsero la bici per raggiungere il prima possibile i luoghi di cui si favoleggiava: in quel caso la due ruote si mostrò paradossalmente più veloce persino delle slitte, per motivi che Rosen illustra nei particolari. All’opposto dei cercatori, Rosen segue da vicino anche il pedalatore di un riscò della capitale del Bangladesh, Dacca, che dalla descrizione appare come la scenografia urbana più vicina all’inferno di cui si possa leggere, se non si considerano i libri di Dominique Lapierre.

Nei diversi libri che mi è capitato di leggere sull’argomento “bicicletta” ho travato qui e lì gli argomenti che Rosen tratta, ma non tutti insieme come in questa uscita editoriale.

Le parole per dirlo: sono scontri, non incidenti

Come dentro la classica ruota del criceto siamo costretti periodicamente a ripetere alcune semplici indicazioni lessicali per raccontare dal nostro punto di vista di persone in bicicletta qual sia la cruda realtà delle strade italiane. I risultati peraltro sono miseri perché la narrazione maggioritaria di quella che noi percepiamo come violenza stradale e la quasi totalità dei media tendono a minimizzare rimuovendo l’elemento umano nella responsabilità degli scontri e favorendo inoltre l’idea di una causalità, terribile ma pur sempre aleatoria, negli impatti derivanti dalla veicolarità.
E quindi ricominciamo, su. Ripetete con me: se un evento è ciclico non è casuale ma uno stato ricorrente di cose. Quindi non bisogna parlare di “incidenti” ma di “scontri”. Incidente, accidente, oh mamma mia che caso, guarda tu. Ecco, cominciamo a levarci dalla testa che morire in strada per impatti derivanti dall’uso distorto dei mezzi stradali incidentale: non lo è. Dice: “vabbe’ ma lo scrive lui, si sa che ce l’ha con le macchine” (sottotesto: “ci vuole far tornare al calesse, ‘sto luddista”).
Ci sto e mi prendo la mia parte di responsabilità.
Però giusto martedì scorso è stato presentato uno studio della Lumsa, l’università romana di ispirazione cattolica, dal titolo “L’analisi spazio-temporale degli incidenti stradali di Roma: determinazione delle componenti cicliche e dell’effetto di eccitazione”, coordinata da Antonello Maruotti, ordinario di Statistica, e realizzata da Pierfrancesco Alaimo Di Loro (ricercatore Lumsa) e Marco Mingione (ricercatore Università degli Studi Roma Tre).
Determinazione delle componenti cicliche: a mia memoria è la prima volta che in un papiello scientifico emerge quello che tra gli attivisti di una mobilità moderna è un fatto di assoluta evidenza. Ma si sa, noi siamo dei fricchettoni pauperisti e vediamo tutto sotto “le lenti distorte dell’Ideologia” (pensiero diffuso soprattutto a destra).

In estrema sintesi lo studio rivela che a Roma ci sono tre “incidenti” -aridaje- l’ora, un morto ogni tre giorni, due feriti l’ora. Tra il 2019 e il 2021 gli incidenti su tutto il territorio capitolino sono stati 77.483 di cui 28.499 con almeno un ferito o un morto (rispettivamente 35.748 e 311), per una media annua di 25.828 sinistri di cui 9.500 con almeno un ferito o un morto (rispettivamente 11.916 e 104). Il rischio più elevato è nelle ore centrali della giornata (7.00-19.00), con picchi stimati dalle 8.00 alle 10.00 e dalle 15.30 alle 17.30. Notare la concomitanza con gli orari legati al lavoro, e mandare un pensiero diciamo critico verso chi non vuole lo smart working, o lavoro da remoto, per alimentare l’economia della pausa pranzo è per me un portato sussidiario che non deve distogliere dal punto nodale: spostarsi in città come facciamo dagli anni ’60 è letale.

Luca Valdiserri, il padre di Francesco ucciso da una ragazza in macchina mentre era sul marciapiede, sta conducendo da allora una battaglia per riallineare le parole alla realtà. Fortunatamente scrive per il Corriere della Sera e la sua voce è supportata dal maggior quotidiano italiano, qualcosa si comincia a intravedere nella narrazione collettiva ma ancora troppo lentamente.

Il nostro dovere di adulti consapevoli è dunque di continuare a svelare il re nudo.

La risposta italiana alla lezione giapponese: Free Park

La lungimiranza è una qualità che ha bisogno di riflessione per diventare strategia, la rabbia al contrario è il gesto animalesco, che pure ci appartiene, che prende vita soprattutto dallo spunto personale. Nessuno dimentica la storia del sindaco giapponese criticato per anni per aver costruito un muro antitsunami: una ventina d’anni prima del disastro del 2011. Da allora in poi i suoi concittadini lo portarono in spalla. Lezione da noi incomprensibile -qui si parla di ponte sullo stretto di Messina-, che mi è tornata in mente dopo l’iniziativa, incredibilmente bella, della rivista Internazionale di pubblicare il numero di qualche settimana fa il titolo di copertina “Senza le auto le città rinascono”, ad illustrarla una grande bici a canna bassa (non si dice “da donna”, ricordatelo) che nel cestino anteriore ha dei palazzi, quasi ad abbracciarli con amore. Si parla di Tokyo e del Giappone.

Per quelli come me è stato un fulmine, abituati a sfogliare pubblicazioni che una pagina sì e una no reclamizzano la superiore, strafottente, orgasmatica potenza automobilistica. L’iniziativa di Internazionale, settimanale molto apprezzato che da 30 anni apre una finestra sul mondo agli italiani, è stata fuori dal coro.
Ancor di più andando a leggere che non si trattava come abituale della traduzione di un articolo ma dell’estratto di un libro, Carmageddon: how cars make life worse and
what to do about it
, di Daniel Knowles, giornalista del settimanale britannico The Economist. E’ con tutta evidenza una scelta di campo.

Otto pagine in cui Knowles spiega come Tokyo, metropoli vera di quasi 14 milioni di abitanti e non un paesotto come le nostre città, sia una città sostanzialmente demotorizzata. Tra le cose che mi hanno colpito: il risultato di Tokyo è un misto di scelta e casualità: il 35% delle strade giapponesi non sono abbastanza larghe da far passare un’auto, nell’86% se una macchina si ferma blocca tutto il traffico; dal 1957 è vietato lasciare automobili per strada di notte, sequestro e multa di 200K yen (circa 1.300€); in oltre il 95% delle strade giapponesi il parcheggio è vietato anche di giorno; dalla ricostruzione del dopoguerra tutto il mondo ha puntato su strade e automobili, in Giappone su ferrovie (e l’alta velocità nasce lì); i costi sono elevati anche se la benzina costa 1€;revisione obbligatoria biennale 670€; non puoi comprare un’auto se non dimostri dove saperla mettere, garage di proprietà o affittato, e lo spazio costa molto, quindi se proprio insisti ti compri una scatoletta piccola; il parcheggio a pagamento costa 6,5€ l’ora; pedaggi autostradali cari, in media 20€ per 100 km; stazioni ferroviarie come valorizzatore urbanistico, all’opposto del resto del mondo dove sono incubatori di disagio: si costruisce e si investe in appartamenti e locali nelle vicinanze, rendendo più facile la vita a tutti.
Da noi invece abbiamo fenomeni solitari come Free Park, il writer che giustamente sfoga la sua rabbia contro le auto parcheggiate ovunque verniciandole con la bomboletta.
Trovate le differenze.

Le due Italie incompatibili

Lungo le strade italiane i nodi stanno venendo al pettine: esistono due società non solo differenti e distantissime, ma a mio parere anche incompatibili. Questa infungibilità non è semplicemente filosofica ma pesantemente concreta e porta alla morte. Mentre scrivo nelle strade di Roma e provincia siamo arrivati a 75 persone rimaste uccise per scontri stradali dall’inizio dell’anno, una media terrificante di un morto ogni due giorni e mezzo.

A rendere evidente questa diversità antropologica è stato lo scontro degli ormai stranoti youtuber, il caso lo conoscete tutti: il challenge di 50 ore a bordo di una Lamborghini affittata, finito bruscamente contro una Smart con il risultato di uccidere un bambino. Tutto quello che è successo dopo può portare a qualche distrazione: l’inchiesta, le perizie, la scoperta tra molti adulti che esistono dei fenomeni come questo, ci si interroga sul reddito da click, sui giovani diseducati da genitori fragili. Tutto vero: ma il focus resta sul modo divaricato di vedere il mondo su cui vorrei concentrare l’attenzione. Nella mia testa è rimasta quella frase di uno dei disgraziati postadolescenti: più o meno “ma levate co sta Smart, pagata 300 euro al Conad, la mia costa un miliardo, vale come Amazon”. Qui c’è tutto: il disprezzo monetizzato, disprezzo per la normalità di chi va al supermercato, l’ammirazione per l’azienda dell’uomo più ricco del mondo, il diritto a prevalere perché sei seduto su una montagna di denaro, poco importa come l’hai fatto, l’importante è che su quella montagna ci sia seduto tu. Prevaricazione, sopraffazione, disprezzo per il più debole. Cose che ci ha insegnato il recente morto santificato a reti unificate. Sono in mezzo a noi da sempre ma solo negli ultimi trent’anni sono state elevate a sacramenti.

Dall’altra parte c’è una società che da anni si interroga sulle conseguenze negative del modo prioritario di spostarsi in Italia e decide di agire per cambiare le condizioni date. Un esempio è il gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano che la scorsa settimana hanno fatto conoscere un loro studio -idea nata dopo la morte lo stesso giorno di novembre di Davide Rebellin e Manuel Lorenzo Ntube: un campione e un ragazzo, comunque rimasti uccisi-. Il risultato è stato un documento unico in Italia, e ci si sorprende anche che nessuno ci avesse pensato prima, un Atlante che incrocia dati georeferenziati indicando con precisione estrema dove, come e quali siano i punti stradali di crisi in cui una persona in bici ci può restare secca se ne incrocia una su un mezzo motorizzato. L’Istat non ci aveva mai pensato. Dallo studio emergono altre evidenze, come il fatto che tra i morti e feriti in bici solo un quarto si è fatto male in autonomia, il resto è stato investito.

Queste due Italie sono incompatibili e non possono coesistere in strada a meno che non si accetti che il semplice spostamento possa portare alla morte, in qualsiasi momento.

Per me ciò è inaccettabile ed è ora che in questo paese si scelga da che parte stare.

E se il World Bicycle Day diventasse la vera parata per la Festa della Repubblica?

Non ho mai capito, fin da ragazzino, perché la Festa della Repubblica italiana venga celebrata con una parata militare. Si celebra il 2 giugno, che nel 1946 con referendum popolare chiuse in Italia il triste capitolo finale della monarchia. Non vedo cosa c’entrino aerei da guerra che lasciano scie di fumo tricolorato, truppe di vario tipo che mostrano quanto siano forti e disciplinate, retorica e saluti che possono indurre anche tra i più consapevoli a vedere questo show come una manifestazione del fascismo interiore che permea ogni manifestazione di marzialità (basta osservare le foto ufficiali dei nuovi governanti, sempre col mento proteso e lo sguardo fiero e in alto: gli porta bene alle urne? buon per loro, male per tutti).

Questo è forse il periodo storico peggiore per continuare a indicare le storture della retorica militarista nella vita concreta di tutti i giorni, con la guerra russa all’Ucraina che permea le paure dei contemporanei e che non facilita minimamente le voci che, in sintesi, dicono “disgraziati, ma che state facendo?”. Persino il Papa viene spernacchiato quando si azzarda a dirlo. E quindi mi sembra il momento ideale per mettere in campo iniziative che mostrino bene quanto questa retorica e manifestazione di scimmiesca muscolarità sia malata, pericolosa per la pace, pericolosa in sé e anche piuttosto grottesca.

Per uno strano caso del destino l’Onu, nel 2018, ha individuato nel 3 giugno il World Bicycle Day, occasione che in questo giugno diverse realtà associative hanno trasformato la data simbolica in una manifestazione reale lungo l’Appia Antica. Mentre partecipavo alla giornata ho pensato spesso alla differenza abissale che c’era tra il 2 giugno militaresco lungo via dei Fori Imperiali (creata, ricordiamolo, da Mussolini proprio per scopi simili) e la piccola gazzarra colorata che abbiamo fatto noi, persino con un improvvisato picnic lungo i sampietrini ancora oggi percorsi incessantemente dalle 4 ruote. Perché non farne ogni anno una parata alternativa a quella in mimetica e festeggiare la Repubblica? In fin dei conti la forma repubblicana è dovuta al disgusto per gli anni di guerra e dolore che il fascismo ci ha portato in dote, festeggiarla con il mezzo pacifico per eccellenza dovrebbe essere la normalità. Nelle motivazioni per il World Bicycle Day l’Assemblea Onu scrive chiaramente che si celebra la bicicletta come “mezzo per promuovere lo sviluppo sostenibile, rafforzare l’educazione, compresa l’educazione fisica, per bambini e giovani, promuovere la salute, prevenire le malattie, promuovere la tolleranza, la comprensione e il rispetto reciproci e facilitare l’inclusione sociale e una cultura di pace”. Direi che ci siamo in pieno.

Oltretutto il prossimo 2 giugno è una domenica e festeggiare in bici -in contemporanea agli unòduè – con il fruscio leggero delle ruote sottili potrebbe essere interessante e fortemente simbolico. Abbiamo un anno per prepararlo.

Festa della bici per non fare la festa alla bici

Questa volta non si manifesta ma si fa festa. Il motivo è abbastanza semplice -e come sapete tutti la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere, per gli adulti-: chi si muove in bici rappresenta l’unica fetta di popolazione che quando si sposta prova felicità.

E’ difficile per tutti ammettere apertamente che, vista nel suo complesso, la società italiana sia triste, quando non furiosa o preda di varie gradazioni di rabbia, nella pratica dello spostamento quotidiano. In fin dei conti anche noi che ci spostiamo in bici proviamo sentimenti negativi: ma questi nascono dal pericolo costante a cui siamo stati finora condannati in Italia, con abitudini di guida sostanzialmente criminali e che non accennano a diminuire o a essere anche solo parzialmente modificate. In un ambiente ideale lo spostamento in bici produce endorfine e il sorriso scaturisce naturale sulle labbra di chi pedala. In realtà io fischietto, perché quando sono contento mi piace ascoltare musica e non usando le cuffiette per avere anche l’udito ben lucido a fini di sopravvivenza sono costretto a produrre da me la musica che intendo ascoltare.

L’ambiente non è ideale in Italia. In un primo momento dopo il trauma del confinamento coatto causa Covid si era sperato che gli italiani avessero capito il valore assoluto del moto fisico, chiunque ricorda le lunghe file ai negozi di bici, svuotati in pochi giorni grazie agli incentivi ma si credeva anche grazie a quei momenti di libertà consegnatici dall’esercizio fisico in bici. Era illusione, naturalmente. Tutto è ripreso come e peggio di prima, città intasate quotidianamente, la mia in preda di continue trombosi nelle sue arterie intasate.

Inutilmente, peraltro: tonnellate di statistiche costanti ci raccontano da decenni che le automobili trasportano in media 1,2 persone e che nell’80% degli spostamenti individuali si percorrono 10 km.

Tutto inutile, gli italiani usano l’automobile come se fosse una bicicletta, ma non sorridono e sono pieni di guai, da quelli economici a quelli ben più seri dei danni a sé e agli altri e tutti provocati dall’abuso di un mezzo assurdo come l’automobile per spostarsi in città.

Uso indotto da decenni di lavaggio del cervello di un sistema incentrato su acquisto e dunque uso delle quattro ruote, laddove ne basterebbero ampiamente due a pedali per le necessità standard.

Sono decine per prove di questo incantesimo che attanaglia la società italiana convincendola che per muoversi ha bisogno di una quattroruote. L’ultima, sorprendente per me, è la congerie di articoli sul boom delle microcar elettriche: roba che non puoi portare in spalla, ha la capacità di carico delle mie due borse da bici, si ferma in coda come qualsiasi Suv e via dicendo. A Roma e provincia, mentre scrivo, siamo arrivati a 62 morti in strada e ognuno di questi ampiamente evitabile.

Non credo che usciremo da questo stato di incantesimo con interventi istituzionali, per il semplice fatto che il sistema basato sull’automobile è il primo contribuente fiscale italiano e chi strozzerebbe la gallina che dà le uova.

In questa condizione abbiamo deciso di festeggiare l’unico mezzo che di suo non ci dà problemi, con noi da un paio di secoli, dalla manutenzione vicina allo zero e in grado di percorrere molti km km solo mangiando una banana, o parecchie decine con una colazione robusta.

Il 3 giugno è il giorno identificato dall’Onu come Giornata mondiale della Bicicletta, ennesima buffonata che però almeno consente di segnare un giorno sul caledario, e guarda caso il giorno dopo la Festa della Repubblica che in Italia si festeggia facendo sfilare forze armate a bordo di mezzi militari di cielo e terra, quelli di mare sono esclusi sol perché la kermesse si svolge lungo via dell’Impero.

Il mezzo pacifico invece si concentrerà questo sabato lungo l’Appia Antica. Per tre ore di chiacchiere e svago dalle 10 alle 13 all’altezza del Quo Vadis, la domanda che Pietro rivolse a Gesù mentre scappava dalla persecuzione romana e che noi vorremmo rivolgere a tutti quegli sventurati che davvero credono all’automobile come mezzo di spostamento personale in città. In seguito alla festa di strada sulla via più antica del nostro paese ancora in funzione e abusata da mezzi a motore di ogni tipo, e in lizza per diventare patrimonio Unesco al pari del centro di Roma -ugualmente abusato- ci sposteremo sui prati adiacenti per un mega picnic collettivo e fare rifornimento al nostro mezzo preferito portando il metabolismo che lo muove al pieno di carburante. E’ consigliato portare cibo e bevande da condividere, oltre a un telo per stendersi comodamente sul prato. Strumenti musicali unplugged o elettrificati benvenuti, molti di noi biciclettari utilizzano delle casse bluethoot per ascoltare musica mentre si viaggia.

Si tratta di una festa ma l’abbiamo collegata al problema più gigantesco che l’umanità si trovi davanti, il cambiamento climatico causato dalle nostre rapaci abitudini. E’ anche stato messo sul sito festadellabicicletta.it a punto un documento scientifico che spiega come e perché la bicicletta sia il mezzo fondamentale per contribuire a far abbassare la febbre al pianeta.

Noi sappiamo che rimarremo inascoltati, molte sono le prove che l’autobus che ci sta portando a sbattere contro un muro di granito abbia addirittura accelerato la sua corsa, con incentivi a fonti fossili e persino all’industria militare. La tragica alluvione in Romagna ha già finito il suo effetto di allarme. Non intendiamo lasciarci scoraggiare e continuiamo a proporre questo stile di vita leggero e vorrei dire soave come parte di un cambiamento collettivo necessario per la nostra sopravvivenza come specie. Il Comune di Roma ha deciso di concederci lo status di “evento di interesse pubblico” e lasciarci occupare l’Appia Antica senza farci sborsare un euro. Il patrocinio è arrivato anche dal Parco Archeologico, che ci lascerà usare le sue strutture adiacenti.

La festa è aperta a chiunque si presenti in bici o a piedi, ci vediamo lì.

La Festa della bicicletta il 3 giugno nella capitale più arretrata d’Europa

C’è sempre bisogno di una buona bicicletta, attrezzo che sta con noi nella sua forma attuale da un paio di secoli e finora ineguagliato nella sua efficacia trasduttiva: riesce a moltiplicare l’azione delle gambe di diverse misure, velocizzando l’andare del corpo. Da qui il termine velocipede, dal sapore desueto e che ancora esiste ufficialmente, nel nostro codice della strada, il più arretrato del mondo civile e se modificato quasi mai è a sfavore nel mezzo più arretrato in assoluto, l’autovettura come attrezzo di spostamento personale in qualsiasi ambito, persino all’interno degli asili d’infanzia. Un mezzo, pensate, che si muove usando una serie rapidissima di esplosioni indotte grazie all’utilizzo di vari liquidi infiammabili derivati dalla lunga putrefazione di resti biologici risalenti all’era dei dinosauri. Arretratezza che si rispecchia nell’attualità della capitale d’Italia, Roma. Luogo dove i pedoni ringraziano i rari automobilisti che si fermano sulle strisce pedonali (da qui l’usanza di ringraziare), dove il parcheggio in doppia fila viene percepito come un diritto, da cui le aggressioni verso eventuali, e quasi alieni, controllori del traffico che multano. In particolare questa usanza -plurime file di parcheggio lungo la carreggiata formalmente destinata allo scorrimento- viene percepita come una fatalità da sempre: per esempio il povero Mario Di Carlo, assessore anni ’90, scomparso nel 2011, la definì inevitabile durante un intervento radiofonico e fu crocifisso, ipocritamente, per questo; concetto che ho sentito esprimere nelle sue linee di fondo l’altra sera dall’attuale assessore, con qualche cambiamento di sostanza: l’assessore in carica la definiva come una calamità derivante dal semplice fatto che lo spazio è finito e le macchine sono troppe, da cui l’esistenza del parcheggio illegale. In tre decenni dunque l’incessante lavorio culturale della società interessata al cambiamento è riuscita a produrre questo slittamento: la doppia fila da necessità a calamità. E tuttavia la doppia fila resta.Il situazionismo politico attuale mi ha portato anche alla gustosa visione di un tweet dell’attuale sindaco che definiva Roma pulita proprio mentre consultavo la mia tweet list davanti a un bar all’angolo tra via dei Serpenti e via Leonina, con sullo sfondo il Colosseo e poco prima una pila di monnezza che superava abbondantemente l’altezza dei cassonetti.

Qui da noi esiste anche una via famosissima nel mondo, e che io sappia l’unica in Occidente che è stata candidata a patrimonio Unesco: l’Appia Antica risale al 312 avanti Cristo ed è incessantemente percorsa da autovetture e altri mezzi pesanti persino sui grandi basoli all’altezza della tomba di Cecilia Metella, vissuta nel I secolo aC.

Proprio per questo una serie di associazioni ha pensato di celebrare il 3 giugno, che l’Onu ha destinato alla bicicletta, lungo l’Appia Antica davanti al luogo dove il mito cristiano ricorda l’incontro tra Pietro e Gesù, con il primo che chiede al secondo “Domine, quo vadis?”.

Lì terremo il 3 giugno un raduno giocoso, con musica e altre iniziative, dalle 10 alle 13, per poi trasferirci a fare un grande picnic sui prati del parco adiacente. L’obiettivo è dare pace, per quelle poche ore, all’Appia Antica come simbolo di tutte le strade del mondo abusate dalla veicolarità privata. E festeggiare la bicicletta.

Preferisci perdere 24 secondi al giorno o 32 anni di vita?

La scorsa settimana sono andato all’edizione 2023 di Mobilitars, tre giorni di seminario sulla mobilità di un futuro che sembra sempre più sfuggente. Ero chiamato a gestire un dibattito sul “Racconto del cambiamento” cercando un filo comune tra tre narrazioni diverse, quelle di una docente universitaria, di una pubblicitaria e di un giornalista. Il mio arrivo a metà mattinata a Bologna non mi ha consentito di ascoltare i dibattiti precedenti: chi invece c’era mi ha riportato l’intervento di Alfredo Drufuca, ingegnere e anima dello studio Polinomia, che mi ha fatto balzare sulla sedia come dopo una scossa. Drufuca ha presentato la sintesi di uno studio commissionato dal comune di Bologna dal titolo “Stima dell’impatto della Città 30 sul benessere sociale”. Nel corso della sua esposizione, mi ha raccontato chi c’era, ha anticipato le conclusioni dello studio completo, non presenti nelle slides proiettate, in cui si dimostra matematicamente che nella struttura studiata da Bologna il tempo perso dall’utenza motorizzata è in media di 24 secondi al giorno, 12 secondi a tratta. I calcoli sono complessissimi, vi dovete fidare anche perché ho telefonato ad Alfredo e ho cercato di farmi spiegare a voce; venti minuti dopo mi sono arreso e gli ho chiesto di scrivermi i passaggi in estrema sintesi: ho studiato le 4 pagine di sintesi che mi ha inviato e vado a scoprire che, secondo una loro elaborazione sui dati Istat 2021, “gli anni mediamente perduti per un decesso in incidente stradale sono circa 32”.

Avete capito bene: l’estrema sintesi dello studio dimostra che portare una città a diventare un’immensa zona 30 rallenta il glorioso andare dell’homo automobilensis di 24 secondi al giorno, abbatte le morti in strada e di conseguenza annulla virtualmente i 32 anni di vita in meno in media che l’attuale sistema stradale assassino ruba. Ci sono anche dei calcoli economici sul guadagno, raddoppiato circa, in termini collettivi, senza contare che per ogni morte evitata si risparmiano oltre 2,8 milioni di € a testa.

E’ una specie di terremoto per gli istinti belluini della popolazione attuale, se questa uscisse dalle sensazioni istintive e entrasse nel mondo della logica.

Un mondo della logica che evidentemente non riesce a trovare ascolto, visto che mentre scrivo un altro camion ha ucciso il terzo ciclista in 5 mesi a Milano con la stessa identica dinamica delle altre due precedenti: schiacciato in curva a causa dell’ormai noto angolo cieco del mezzo pesante. In colpevolissimo ritardo sia il sindaco Sala sia l’assessora Censi, non di loro spontanea volontà ma sollecitati dai giornalisti locali, hanno annunciato un’accelerazione per adottare l’ordine del giorno approvato all’unanimità dal consiglio comunale, pronto da tempo a firma Mazzei ma rimasto un po’ lì a galleggiare, che prevede l’obbligo di sensori. Dicono in tempi rapidi, forse il primo luglio: il che vuol dire in media altri due morti di cui non conosciamo ancora il nome.
Nella mia coscienza è ben presente l’assurda distanza tra chi si affanna a organizzare convegni come Mobilitars, o manifestazioni in strada come a Milano dopo ogni morte iniqua dovuta alla violenza motoristica, o la prossima che stiamo organizzando a Roma per il 3 giugno in un luogo altamente simbolico come l’Appia Antica, e le continue morti in strada nell’indifferenza generale. Un’indifferenza sistemica, dove il matrimonio mortale tra l’interesse dell’industria e la storica fascinazione italiana per l’automobile impedisce ogni ragionamento sulla via da scegliere per una vita degna in strada.

E’ praticamente certo che i calcoli di Polinomia verranno serenamente accantonati proprio perché la logica non interessa e l’indifferenza di sistema per i destini personali, se di ostacolo ai profitti dell’industria, ha trovato il suo alleato naturale in una passione motoristica che guarda caso ha i suoi templi proprio in Emilia Romagna.

Ma si continua a voler ragionare, in questa minoranza di non infatuati dei prodotti del marketing.

In questo la comunicazione è fondamentale. Finora l’abbiamo fatta un po’ artigianalmente e sempre a Mobilitars la docente associata di Linguistica Cristina Caimotto, dell’Università di Torino, ha sorpreso l’intera platea, largamente formata da attivisti e “cultori della materia” per così dire, svelando che molte delle frasi che noi usiamo hanno un effetto negativo su chi intendiamo convincere. Dobbiamo cambiare registro. E forse cominciare a passare alle azioni concrete.

“Abbiate il coraggio di vietare le biciclette”

Avrete tutti fatto caso che la morte di Cristina a Milano, morta questo aprile sotto le ruote di una betoniera in curva, ricalca la stessa dinamica dell’altra orribile fine della sua coetanea Veronica, sempre a Milano a febbraio scorso. I ciclisti milanesi, instancabili quanto impotenti e senza la forza di dare fuoco a un qualsiasi edificio pubblico per ovvi motivi, hanno manifestato l’ennesima volta. Ne parlo perché mi ha colpito l’intervento di uno dei compagni della locale Critical Mass, Angelo: “Almeno abbiate il coraggio di vietare le biciclette in città, se non siete capaci di intervenire per proteggerci”.
Per chi non è un cicloattivista, come invece lo è Angelo, vorrei sottolineare che questa frase è terrificante nella sua innocuità, e deve risultare piacevole solo a un qualunque presidente dell’Aci locale di ogni territorio. Per chi invece segue queste vicende come me e mi auguro un numero crescente di persone qui si è toccato un limite -anche piuttosto pericoloso se fossimo francesi-: l’utilizzo sempre peggiore delle nostre strade ci sta portando al nucleo della questione, ovvero è del tutto evidente l’impossibilità di convivenza in strada della mobilità attuale con quella del futuro.

Intendiamoci, i mezzi pesanti da lavoro in città non sono come le auto private per lo spostamento personale da quasi 700 persone su mille in Italia: hanno per ora una loro funzione, a parametri invariati. E non è la velocità in questo caso a uccidere ma l’ingombro e la presenza degli angoli morti di manovra. Cioé un altro parametro con cui chi ha scelto di muoversi in bici deve fare i contro a ogni dannato metro che percorre. Non bastavano i milioni di matti che corrono solitari in città nelle loro auto private.

“Vietare le biciclette”: ma non si accorge nessuno di quanta disperazione ci sia in questa frase? A me pare impossibile, e infatti credo che -siccome è stata sentita bene dentro palazzo Marino- sia stata accolta con il consueto sonorissimo niente di fatto.

Perché questa ormai risulta essere la cifra degli amministratori moderni italiani: non scegliere. Mai. Qualsiasi cosa accada. Soprattutto se porta fatica, sottrae consenso nell’immediato (leggi: in corso di mandato), dunque non conviene. Lo vedo bene a Roma, dove il sindaco, da noi chiamato “il cartonato” per la sua bidimensionalità, non prende posizione se non sull’inceneritore o su circenses come lo stadio, giochi vari tipo il Giubileo, l’Expo.

Apro il dizionario alla voce “governare”. L’etimo, mi ricorda Treccani, viene da “gubernum”, il timone della nave in latino, da cui governo come lo conosciamo noi, ed è il significato più antico. So andare a mare e l’ultima cosa che va fatta in barca, a parte abbandonarla se affonda, è lasciare il timone libero senza alcuno al governo. Apro quindi il Guglielmotti, vocabolario marittimo: “Reggere, Aver cura, Provvedere col pensiero e coll’opera ai bisogni presenti e futuri di ciò che è sotto la sua custodia o giurisdizione”.

A me sembra che oggi a ogni timone italiano ci sia il “nocchier della livida palude”, ovvero Caronte. E allora vietate le bici e fateci traghettare agl’Inferi, come già avviene. Fate ridere il mondo, su.

Il “boomber” e il tranviere: macché mistero, solo folle velocità

Alcuni giornali, come la Repubblica nella cronaca di Roma, hanno titolato “Il giallo del semaforo”, Roma Today lo definisce mistero. Lo scontro di domenica mattina presto tra il suv di Ciro Immobile e il tram 19 sul ponte Matteotti a Roma, che scavalca il Tevere andando da Flaminio a Prati, sta facendo discutere questa dannata città. La macchina del capitano della Lazio è distrutta davanti, il tram è stato deragliato con 40° di scostamento, danni ne ha ricevuto pochi ma circola da lunedì la foto del poveretto alla guida del tram, un signore di 55 anni, svenuto per la paura o il trauma, vai a sapere, riverso nella cabina di guida (lì per lì invece non se l’era filato nessuno, tutti preoccupati del bomber, anzi boomber visto il casino fatto, della Lazio). Per il calciatore costola fratturata e trauma alla colonna vertebrale, le due figliolette con due microfratture e immagino tanto spavento, per il tranviere prognosi di sette giorni, danni non pervenuti. Il calciatore sostiene di essere passato col verde, lo stesso fa il lavoratore Atac. I cardatori di lana caprina hanno avuto da subito il loro da fare per scusare il campione. Lo svacco calcistico si è oltretutto messo di mezzo: non ti puoi azzardare a commentare che salta su qualcuno e ti dà del romanista che odia i laziali, una pena infinita. Illuminante un fondo agiografico di Marco Lodoli, tifosissimo e dunque un piagnisteo.

Il suv di Immobile (tal Defender della Land Rover,) veniva dal semaforo di lungotevere delle Armi, dove la vista è sgombra. Il tram veniva da piazza delle Cinque giornate, partito dalla fermata a ridosso del suo semaforo. La pagina Facebook del blog CityRailways, animato dall’ingegnere e urbanista Andrea Spinosa, ha pubblicato in tempo quasi reale, domenica stessa, una valutazione misurata di quanto accaduto usando le formule dell’impulso, roba astrusa che non capisco ma a quanto pare efficace. CityRailways è risalito alla velocità del Suv considerando essenzialmente tre fattori: il peso dei due mezzi (2.600 kg il suv, 30.500 più 25 persone a bordo su due carrelli il tram) e l’angolo di spostamento del tram, appunto 40°. A calcoli fatti il Suv ha colpito a 79,7 km/h. Dal semaforo sul lungotevere al luogo dell’impatto ci sono una trentina di metri.

In sintesi: dal semaforo al botto la distanza è poca, la vista è sgombra, le valutazioni sono facili. Mi sono fatto un’idea di come sia andata, dopo un sopralluogo lunedì scorso. Non ci sono andato apposta, passavo da quelle parti e ho pensato di fare un salto e verificare di prima mano le fasi semaforiche e le dinamiche dei vari mezzi.

Se i calcoli di CityRailways sono corretti non c’è modo di raggiungere gli 80 all’ora da fermo al semaforo con quel mezzo, quasi 100km/h in 30 metri non credo sia possibile con mezzi omologati per la circolazione stradale, dunque non era fermo; con il tram fermo al semaforo è dal lungotevere che scorrono i mezzi e quando scatta il via libera per il tram (barra luminosa bianca verticale) si deve fermare il lungotevere: per qualche tempo, come uso a roma, le macchine sul lungotevere continuano invece a passare, il solito fenomeno dell’accelerazione al giallo, ma non credo che ci sia il tempo per il tram di occupare l’incrocio durante il passaggio abusivo; lo scontro, dicono le cronache, si è verificato domenica mattina alle 8,15: è plausibile che le strade fossero vuote o quasi.

La mia opinione è che il suvvista abbia accelerato al giallo e bruciato il rosso, forse stimando che non passasse nessuno. A questa opinione si stanno lentamente avvicinando le cronache locali, ma col bilancino e sempre dando spazio all’avvocato del calciatore, non a quello del lavoratore.

Per ora il dibattito è sulle condizioni del calciatore, il suo stop per almeno due turni di campionato, lo spavento, i problemi che porta alla squadra la perdita temporanea di un pezzo così pregiato tornato recentemente al gol dopo un periodo a secco. I Tg locali sottolineano che “se fosse stato su un’auto più piccola i danni sarebbero stati ben maggiori”, mostrando la consueta cecità e anzi alimentando la spirale perversa macchina grande/grande sicurezza (per chi è dentro, ovvio). E ignorando, al solito, il fattore velocità moltiplicato peso.

Per noi moderni frequentatori dei percorsi urbani è ovvio, senza fare sopralluoghi o studiare le arcane formule di CityRailways, che quel famoso personaggio corresse come tutti in Italia, quindi come un matto, nella solita indifferenza e acquiescenza collettiva.

A me personalmente rimane in testa l’immagine del macchinista svenuto dentro la cabina, un qualsiasi lavoratore di cui non frega niente a nessuno.