Luigi Malabrocca era un ciclista famoso. Correva negli anni delle titaniche sfide tra il vecchio Bartali e il giovane Coppi, consegnate all’epica del ciclismo. Anche Malabrocca, detto “il Cinese” per via del taglio degli occhi, era famoso ma per un motivo particolare: arrivava sempre ultimo alle tappe della gara più seguita d’Italia.
Attenzione però: il Cinese non era una schiappa. In altre gare minori -quelle dei dilettanti- vinceva o arrivava in testa, insomma era forte.
Avveniva, negli anni cosiddetti eroici del ciclismo sportivo, un fenomeno che noi contemporanei non potremmo capire, intossicati come siamo dalla scuola di Chicago e dalla competizione forsennata in cui se arrivi secondo sei il primo dei falliti. A quell’epoca, addirittura, si premiava l’ultimo, la cosiddetta “maglia nera”. Prosciutti, salami, qualche lira. Roba importante negli anni della povertà e soprattutto negli anni tra e dopo le due guerre. Pensate che l’ultima maglia nera ad essere premiato, nel ’51, fu un ragazzotto di Catena di Villorba, dalle parti di Treviso, Giovanni Pinarello. Giovannino se ne tornò a casa sua con dei bei soldini e aprì un laboratorio dove costruiva artigianalmente biciclette. Se oggi comprate una Pinarello vuol dire due cose: siete impaccati di soldi e forse non sapete che quel mezzo supremo che pedalate nasce da una delle tante storie di miseria del paese subalpino.
Tutti i tifosi di ciclismo conoscono Malabrocca, ma in questo inizio secolo è nata una genìa di ciclisti urbani che probabilmente in larga parte non conosce la sua storia; e comunque si disinteressa del ciclismo sportivo. Per questo parlo del Cinese: un uomo semplice che con discreto acume scelse di diventare l’Ultimo per eccellenza (primato insidiato da Sante Carollo, l’altro pretendente alla maglia nera, una specie di dualismo al contrario con i rivali Coppi-Bartali), trovando in questa strategia il modo di campare discretamente.
C’è un’intervista di Marco Pastonesi alla nipote del Cinese, Serena, in cui lei -nostra contemporanea, e giovane per di più- lascia intravedere un mondo di semplicità consapevole incarnata anche dal nonno: “Alla Barbesina teneva un milordo, una serpe, sul tetto perché si occupasse dei topi, e la sera le dava da bere latte in una ciotolina. Sapeva di cucina, per anni lui e la nonna Ninfa avevano avuto una trattoria, specialità risotto con le rane, rane fritte, pasticcio di trota alla maionese, temoli, anguilla. D’estate si trasferiva in Val Vigezzo, camminava per i sentieri, aveva un senso dell’orientamento perfetto, come se disponesse di un gps incorporato. ‘Vedi questo sentiero? Se vai sempre diritto, finisci in Svizzera’.”
Ultimo che diventa primo, perlomeno in un certo tipo di attitudine alla vita. Trovo un certo parallelismo con la nostra lotta per la ciclabilità, in buona parte derivante da una consapevole visione del mondo che troviamo intorno a noi in questi decenni e che non ci piace. Ai ciclisti urbani, anche per l’abitudine alle asprezze circostanti, piace la semplicità, il risparmio energetico; sentiamo istintivamente l’opportunità e la cogliamo al volo; siamo un po’ in guerra senza volerlo e cerchiamo in ogni modo di sopravvivere, abbracciamo ogni occasione per farlo, e a volte ci incazziamo.
Come è successo nel 2012, nella grande manifestazione #salvaiciclisti a Roma: e come rifaremo quest’anno, sempre a Roma ai Fori Imperiali, il 28 aprile prossimo. Siamo le maglie nere d’Italia e tuttavia ci godiamo la vita. Vorremmo conservarla a dispetto di automobilisti distratti da smartphone e nervosismi vari. Siamo tutti Malabrocca.
Ps: probabilmente Serena Malabrocca verrà a manifestare, venite a fare due chiacchiere con la nipote del Cinese.