Imperfect (hot) Days

Qualche giorno fa nella mia via si è verificato un black out elettrico lunghissimo, uno dei maggiori che ricordi: più di 5 ore senza corrente. Era il primo dei giorni infuocati che stiamo vivendo in questo periodo, e il giorno dopo ho letto che anche a Milano si erano verificati fenomeni simili; immagino che anche il altre zone d’Italia ce ne siano stati. Ho immediatamente individuato la causa all’accensione contemporanea dei condizionatori intorno a me, cosa che poi mi è stata confermata dai tecnici dell’Areti venuti ad aggiustare la centralina locale, e senza che glielo suggerissi io.
In casa non ho condizionatori ma ventole da soffitto, tre molto grandi (semplici, eleganti, silenziosissime; e poco costose), una più piccola: ci siamo organizzati così proprio per non partecipare allo spreco di energia: ventole, ombreggiamento ragionato e creazione di correnti d’aria bastano anche in queste temperature fuori norma. Naturalmente senza corrente le ventole non funzionano e ci siamo arrangiati con docce, ombreggiamento e correnti d’aria. Ma abbiamo comunque pagato lo scotto delle decisioni altrui, prese immagino senza alcuno sforzo di cercare un’alternativa meno impattante e forse anche grazie al bonus condizionatori ancora in atto (recuperi di quanto speso dal 50 al 65%). Non mi risulta che ci siano bonus ventole.

Trovo delle forti somiglianza con quello che accade in strada nel paese subalpino che si gloria di essere bello. Gli spostamenti personali si effettuano essenzialmente su autovetture di proprietà che generalmente ospitano solo chi le guida malgrado occupino uno spazio una decina di volte maggiore di quello di un corpo umano, pesino parecchie decine di volte di più e impattino negativamente su ogni aspetto della vita collettiva in strada. Ma, al parti dell’accensione di un condizionatore quando si vuole il fresco, l’umano standard non si dà pensieri e accende motori estremamente potenti per incolonnarsi collettivamente in strada.

Sono fenomeni identici e nascono da quella che definisco “l’inerzia della normalità”. La migliore definizione di normalità che ho trovato finora appartiene a una ricercatrice tedesca, ed è “ciò che non ha bisogno di spiegazioni”.

Decenni di marketing del sistema economico oggi dominante hanno portato a questo tipo di normalità centrata sull’interesse personale nascondendo con la massima cura i riflessi negativi sulla collettività. L’eterna altalena tra egoismo e altruismo, entrambi in antropologia strumenti che hanno consentito li sviluppo della nostra specie.

All”atto pratico, per chi vuole avere una vita migliore di quella proposta dal marketing, l’effetto è frustrante: tu cambi personalmente modo di stare al mondo ma se quasi tutti giocano al ribasso, vai in basso anche tu: non si scappa, se non a tratti.

Va spiegato perché gente come me -che sta aumentando, ma poco- fa scelte diverse, dunque “anormali”. Generalmente la spiego puntando sulla profondità e l’intensità del gusto di fare questo o quello, e uso l’esempio del pane fatto in casa: il suo odore non può essere comprato in nessun luogo, ed è obiettivamente gustoso avere l’odore del pane in casa. Così anche per l’uso di bici più treno, dove qualcuno guida e tu sei con il tuo mezzo dentro una carrozza a leggere, dormire o chiacchierare. Ma, come nel proverbio, se il cavallo non beve non c’è niente da fare.

In futuro proverò a consigliare la visione di “Perfect Days” di Wenders per provare a far capire quanto imperfect siano i nostri days collettivi: è un film sulla semplicità e del gusto di vivere per vivere.

Dare dignità estetica all’orribile Verdona Pininfarina

Fin dall’inizio, circa nel 2001, della mia personale ricerca sulla bici ho avuto un punto focale irrinunciabile: ridare dignità al mezzo. Magari qualcuno non lo ricorda ma a quei tempi la bicicletta era considerato un mezzo da poveracci, in qualche sacca poco attenta della società lo è ancora oggi ma ormai il valico è superato. Allora era così. Per anni mi sono ingegnato a organizzare mostre con le mie ri-costruzioni, basate sulla de-costruzione: mettere a nudo il più possibile le ossa della bici e al massimo fare degli interventi cromatici inusuali, spesso azzardati. Un gioco ben riuscito che mi ha portato a voler costruire telai anche questi a volte azzardati ma comunque semplici e soprattutto attraenti.

Ho sviluppato però uno snobismo meccanico in qualche modo inaccettabile e quasi patologico, poco adatto al mezzo popolare per eccellenza. Consapevole di questo Riccardo, un caro quanto sadico amico, si presentò da me con un telaio della famigerata Verdona, la Mtb anni ’90 firmata da Pininfarina per la Esso, sfidandomi a renderla non dico bella (lui disse così, in realtà) ma almeno accettabile (questo fu il mio rilancio). Si era ai tempi della pandemia. Il telaio è rimasto accatastato su altre cianfrusaglie per tre anni, ogni tanto lo guardavo e distoglievo quasi subito gli occhi.
Sicuramente sapete di che oggetto parlo: quella bici presente in ogni angolo d’Italia dal color verde raganella, si può trovare in balconi, cortili, fermate del tpl, sotto i ponti, ovunque. Generalmente abbandonate. Centinaia di migliaia di esemplari presi con i punti benzina e una modesta cifra in lire: una combinazione tossica nata dal connubio tra il più quotato carrozziere d’Italia, che ha vestito decine di Ferrari, e l’azienda petrolifera più grande del mondo. Il risultato è stato un oggetto inguardabile, anche se robusto e a suo modo ben costruito. Il telaio -taglia unica- è uno scatolato d’alluminio di sezione ovale e a forma di Y sbracata, molto grosso, che contrasta con forcella e posteriore in tubazioni di diametro inferiore. La componentistica è entry level ma funzionale: ogni pezzo, osservato singolarmente, sembra normale. L’insieme assemblato è un pugno nell’occhio, con l’aggravante finale del colore osceno.

Ho sabbiato via il colore, lucidato il telaio e sostituito la forcella con una molto imponente che riequilibra il rapporto con le dimensioni della Y, più un’impostazione gravel con piega, leve, monocorona e meccanismi di qualità. La chicca è il faretto anteriore montato molto alto, a mo’ di café racer. Di una rigidità assoluta ma piacevole, al netto del peso. Il fatto che riceva apprezzamenti, anche superlativi, mi insospettisce e mi fa ripiombare nello snobismo: quanto effettivamente è diventata accettabile e quanto, invece, ancora c’è incultura del mezzo bici?
Poi penso che in fin dei conti è una bici che ha trovato un senso, pedalo via e me la godo parecchio. Anche per lo sberleffo fatto, in primo luogo a me.

La percezione della normalità, ostacolo al cambiamento stradale

Dalla Germania arrivano notizie preoccupanti, in controtendenza rispetto all’idea che ci siamo fatti dell’Europa del nord e della sua propensione al cambiamento stradale, finora percepito sotto le Alpi come una direzione ormai data per acquisita.

Così pare non essere. In un articolo apparso sullo Spiegel e importato qui da Internazionale, dal titolo “Il verde non piace”, si mettono in fila le battute d’arresto nello sviluppo di strade con spazi riassegnati alla ciclabilità e dunque sottratte alle automobili. Sono esperienze che si stanno vivendo in città della più varia estensione, da modesti centri come Griessen a città grandi e note come Hannover, Monaco e persino Berlino.

Il caso tedesco è comunque, in qualche modo, parzialmente opposto a ciò che si sta vivendo da noi, dove la lotta alla ciclabilità viene direttamente dal governo centrale: ultimamente e sempre più spesso, scrive lo Spiegel, ogni volta che un’amministrazione propone un progetto a favore di spazi dedicati alle biciclette si alzano voci contrarie fino ad arrivare ai tribunali. Qualcosa di inaspettato per noi, forse grazie alla nostra visione zuccherosa dell’altrove europeo.

La dinamica della reazione è però identica alla nostra: ai tentativi -unanimemente supportati da urbanisti e amministrazioni- di modifiche infrastrutturali e normative le voci contrarie hanno la stessa reazione italiana. Se non si può arrivare con la macchina di fronte al negozio, naturalmente col consueto limite di 50 km/h e non il 30 che va espandendosi nelle riprogettazioni urbane, scattano gli allarmi alla propria libertà personale. Nessun ragionamento che verta su cambiamento climatico o sicurezza delle persone pare essere efficace di fronte a questa reazione, esattamente come succede in Italia.

Nel land di Berlino la Cdu (la Dc tedesca) ha vinto le elezioni con una campagna pro automobile personale, sconfiggendo i Verdi che naturalmente procedevano in direzione opposta. Un risultato è che il nuovo governo ha riaperto alle auto la centralissima Friedrichstrasse e imposto uno stop alle nuove ciclabili. Come Salvini, insomma, e anche lì chi vuole il cambiamento viene accusato di posizioni ideologiche, qualsiasi cosa significhi.

La domanda è: ma che succede? Il giornale cita una ricercatrice, Karoline Augenstein, che si è messa a indagare su questo fenomeno. Secondo lei si è passati da un dibattito finora tra specialisti alla sua applicazione su strada, giocoforza coinvolgendo la totalità della popolazione e quindi entrando in un ambito davvero ampio. L’attacco alle libertà è una foglia di fico, e più in profondità il cambiamento va a sbattere con ciò che Augenstein chiama “il potere della normalità”. E’ normale, in sintesi, ciò che non ha bisogno di essere spiegato, lo stato di cose in cui sei cresciuto è la normalità, che quindi va difesa a prescindere da ogni ragionamento. La necessità del cambiamento ha invece bisogno di un ragionamento, quindi anormale.

Codice della Strage, ora si muovono i comuni

Il primo passaggio in Parlamento della controriforma del Codice della Strada a firma Salvini è andato, la Camera ha approvato il testo anche se in notevole ritardo rispetto alla tabella di marcia leghista, pur se ben lubrificata dall’acquiescenza degli altri partiti di maggioranza. Il merito del rallentamento va a un’eccezionale congiunzione, quasi magica, tra l’attivismo di base, che si è immediatamente saldato in un coordinamento tra decine di realtà che sulla sicurezza stradale vera si impegnano da decenni, e le forze politiche di opposizione che, con rara rapidità, hanno fatto proprie le istanze di base grazie alle evidenti ragioni portate e dimostrate. Manifestazioni in 40 città, mail e phone bombing, una discussione pubblica che ha sfondato la tradizionale inerzia sul punto della stampa italiana: tutto ha contribuito insomma a rendere popolare l’argomento. Che popolare lo è intrinsecamente, visto che tocca la vita di ciascun umano al momento esistente in Italia. Questo lo stato dell’arte oggi. A cui si aggiunge un’altra magica saldatura, quella tra le istanze che gridano da tempo “questo è un codice che farà strage” e un folto gruppo di comuni italiani che hanno approvato o stanno per approvare un ordine del giorno quasi fotocopia di contrarietà alla controriforma, anche questo stimolato dal coordinamento delle istanze di base.

Quale che siano le motivazioni profonde della saldatura base-vertici politici anche se di opposizione a livello nazionale, è sui sindaci che ricade l’applicazione delle regole stradali, e in qualche caso -come a Milano- i primi cittadini sono intervenuti nelle aule consiliari per dare il loro convinto appoggio alla battaglia, che ora continuerà al Senato.
Un’altra rarità che trovo in questa vicenda è l’insolita rapidità con cui Roma ha approvato l’ordine del giorno, che era stato presentato qualche tempo prima in altri grandi centri come Torino o Milano. La capitale è stata la prima grande città a farlo, con le firme della sola maggioranza perché in ogni comune le forze di destra hanno fatto ostruzionismo.

Ad approvare finora il documento sono state dunque le aule consiliari di Roma, Milano, Bologna, Torino, Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova. E’ ancora da discutere a Aosta, Genova, Jesi, Modena, Monza, Perugia. A Sondrio è stato discusso e affondato il 22 marzo dalla maggioranza di destra. Ci sono anche comuni piccoli sul pezzo, l’odg è in elaborazione a Cernusco sul Naviglio e Lentate Sul Seveso, secondo il minuzioso anche se artigianale censimento che gli attivisti hanno avviato da subito.
A Milano si è registrato un inusuale intervento in aula del sindaco, Beppe Sala, che di solito non interviene mai sugli odg in discussione. “Non vogliamo che diventi realtà, è pericoloso per il Paese ed è pericolosissimo per Milano”, ha detto, e in successiva conferenza stampa ha reiterato la richiesta di fermare lo scellerato ddl e ridiscuterlo davvero. Anche il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, si è mosso scrivendo alla presidente del Consiglio chiedendole uno stop sulla marcia militaresca innescata dal suo ministro.

Nel frattempo mi sono preso la briga di spulciare quali associazioni Salvini abbia consultato, è tutto pubblico negli atti della Camera. Si tratta di 37 sigle in cui la parte del leone la fanno sigle legate all’automotive e poche alla mobilità alternativa. Spicca in particolare un singolo esperto che si è messo in luce sui giornali di destra per le sue posizioni anticiclabilità, passate senza colpo ferire nella revisione del codice. Ne parlerò in futuro.

La battaglia prosegue.

Se telefonando: oltre 1500 chiamate alla Camera per dire no al Codice della Strage

L’idea è stata semplice dunque geniale, e anche con quel certo sapore vintage che di questi tempi piace tanto: telefonare personalmente ai capigruppo di maggioranza della Camera dei deputati. Sta proseguendo in questo modo la lotta al “Codice della Strage” escogitato dal ministero dei Trasporti per provare a fermare le norme assurde volute dall’attuale ministro: ridare libertà d’accelerazione agli automobilisti e costringere in un recinto la crescente consapevolezza che la mobilità personale motorizzata lasciata crescere inselvatichita negli ultimi decenni è letale per le persone e per le nostre città.
Da quando il testo è arrivato alla Camera associazioni, coordinamenti, realtà organizzate si sono messe al lavoro per il contrasto a norme assurde che portano un ulteriore imbarbarimento nella circolazione, limitando fortemente la prevenzione e agendo in stile sceriffo solo quando il danno è stato fatto. Da circa un mese l’attivismo di base è riuscito a mobilitare circa 40 città italiane da Trieste a Lecce, coinvolgendo piano piano decine di sindaci fino ad arrivare alla mobilitazione parlamentare di tutte le opposizioni.

Come sappiamo la fantasia dell’attivismo, strumento necessario in mancanza di altri a parte la logica, escogita di continuo nuovi modi per mettere il dito nell’occhio ai dirigenti del paese: sentendo arrivata a saturazione la parte “mobilitazione fisica”, che comunque continua, il genio milanese ha pensato: e se gli telefonassimo? Il numero della Camera, così come quello del Senato dove la riforma del Codice della Strada arriverà anche se in ritardo rispetto ai piani leghisti, è pubblico e per chiaro dovere istituzionale i centralini rispondono sempre e -cosa che non tutti sanno- non fanno in alcun modo da filtro: i cittadini possono chiamare e chiedere di qualsiasi parlamentare, fino ai presidenti dei due rami. La telefonata viene passata senza indugi, ma naturalmente agli uffici: il filtro è lì. Quindi sotto con le telefonate, seguendo uno schema preciso: chiedere del capogruppo di uno dei tre partiti di maggioranza (dunque le telefonate diventano tre), quando risponde l’ufficio dare nome e cognome e dire che non si è d’accordo con la riforma, chiedendone il congelamento per ridiscuterla. C’è libertà nel dire perché si è contrari. I centralinisti, abituati a tutto, mostrano spesso sorpresa: “ma che succede oggi che chiamate tutti?” è stato detto a diversi attivisti. 
Il piccolo gruppo organizzatore ha portato, solo lunedì e martedì, a oltre 1500 telefonate, la cosa è stata citata in aula mentre era in corso la discussione, le segreterie -quasi tutte gentilissime- testimoniano che “state telefonando in tantissimi”. Martedì anche due conduttori di Radio Popolare hanno telefonato, rendendone conto poi in trasmissione, che fortunatamente è già in parte satirica, ottenendo effetti di chiara comicità.
Risulta essere il primo caso di “phonebombing” in Italia, e ora si passa al Senato.

Come aumentare le morti in strada: lo spiega bene il Codice della Strage

Per questa primavera assisteremo a un aumento di morti e feriti sulle strade italiane. C’è un’accelerazione in corso sulla riforma del Codice della Strada firmato Salvini: il testo è stato discusso in aula alla Camera, a breve passerà al Senato e potrebbe essere approvato rapidamente. A meno di uno scatto di dignità delle forze politiche che impedisca questa controrivoluzione, che di fatto dà mano libera agli automobilisti e lega invece quelle dei comuni, a cui viene sottratta molta capacità decisionale su Ztl, ciclabili, interventi di traffic calming come le Zone 30. Per una miriade di motivi, che in seguito sintetizzerò, un gruppo eterogeneo di associazioni che gravitano intorno al risanamento stradale, e che per la prima volta hanno promosso presidi e manifestazioni in 40 città italiane dal 9 al 12 marzo, ha rinominato il tomo salviniano “Codice della Strage”. Sono così tante le misure insensate, o forse sensate per chi malsopporta di pedoni e persone in bici per strada visti come ostacoli alla propria esistenza, che risulta difficile elencarle tutte. Lo ha fatto Andrea Colombo, esperto di mobilità e uno dei principali promotori di Bologna 30: se ne parla altrove qui.

L’impianto della riforma ruota intorno a un concetto: avocazione al governo centrale delle modifiche allo status quo e poderose strizzate d’occhio ai comportamenti più pericolosi. Per esempio, nei casi in cui oggi l’automobilista ha l’obbligo di dare precedenza al ciclista, tale obbligo viene trasformato in un fumoso, e insanzionabile, “prestare attenzione”: l’effetto che ne conseguirà sarà chiaramente, a scontro avvenuto, la più classica delle scuse in strada, “si è buttato all’improvviso”. Decine di studi, basati sulla fisica, rilevano che all’aumentare della velocità si restringe il campo visivo: madre di ogni “non l’ho visto” è la velocità insensata in città. Che addirittura potrebbe vedere anche un innalzamento dei limiti: anche questo prospettato nel Codice della Strage.


In sintesi la strategia è quella di non toccare e semmai peggiorare la prevenzione di comportamenti sciagurati, causa del 90% degli scontri stradali (“incidente” è una casualità, quando diventa certezza è una statistica), e colpire repressivamente e a posteriori comportamenti “devianti” come stati alterati dovuti a droghe e/o alcol, che sono il 10% delle cause di morti e feriti. Che nel frattempo si sono verificati e non è possibile riavvolgere il nastro del danno. Il risultato è meno regole, limitazioni, controlli, sanzioni e più libertà di circolare nelle città per i veicoli più veloci e pesanti (quelli a motore) e regole più restrittive e meno spazio e sicurezza per i veicoli più leggeri e gli utenti più vulnerabili.

Una persona perbene si domanda: ma che senso ha? L’unica risposta che riesco a darmi è la ricerca di consenso in fuga stimolando la pancia della società, in Italia largamente motorizzata e ampiamente asociale in strada: alla ricerca di vie, tutte azzardate, per risalire il declino elettorale evidente. Non sono un fine stratega come l’attuale ministro dei Trasporti e c’è anche la possibilità che questa assurda, criminogena manovra sia moneta di scambio per altro che non riesco a immaginare. Ma la strada è l’unico spazio pubblico vero che sia rimasto, ci passa la società intera senza alcuna eccezione. Come sia possibile che la sua gestione venga lasciata in mano ai calcoli pro domo propria di un leader in declino è la domanda che dovremmo porci.

Ai turisti consiglierei di evitare per un po’ l’Italia.

Il treno dei desideri in Italia all’incontrario va

La prima volta in vita mia in cui ho visto salire delle bici su un treno fu in Danimarca negli anni ’80, durante un Interrail. Erano tempi in cui esisteva ancora il telegrafo, mappe e biglietti erano di carta, ogni paese aveva la sua moneta, il telefono portatile era solo nei romanzi di fantascienza. In quella stessa occasione vidi il primo giubbotto di pile, addosso a un finlandese che stava andando come me in Norvegia a passeggiare, glielo invidiai perché era caldissimo e leggerissimo mentre io ero addobbato con strati di lana (umida).
Questo il contesto in cui vidi per la prima volta l’accoppiata bici più treno. Moltissimi anni dopo anche in Italia arrivò il trasporto bici sui regionali ma sempre all’insegna della sfiducia tra vettore e utente, come classico in Italia, con spazi limitati e ingressi difficili. Qualche anno fa l’ammissione delle bici pieghevoli sui treni ad alta velocità, e infine la novità più apprezzabile degli ultimi anni, e che io uso ormai ogni anno per andare a casa mia in Sicilia: spazio apposito per bici intere su alcuni vagoni di alcuni Intercity. Lunga percorrenza in autonomia: per me un sogno avverato.

Ma c’è sempre tempo per peggiorare le cose nel nostro dannato paese, soprattutto se aneli a una libertà di spostamento che non sia quella dettata dalle case automobilistiche. Qualche settimana fa chi usa l’intermodalità vera (quella finta è il parcheggio dedicato in stazione, dove devi lasciare il mezzo) è stato sorpreso da un annuncio ufficiale di Trenitalia: dal primo marzo le pieghevoli, diceva, devono essere messe in un’apposita borsa pena una multa di 50€ e la discesa nella prima stazione di fermata. Immediato parapiglia tra noi utenti, con tanto di petizione, catene social e quant’altro. Il sito Bikeitalia ha informato tutti da subito e ha seguito la cosa nei dettagli, potete andare a cercare lì i vari passi della vicenda.
Vicenda che si interrompe bruscamente alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo regolamento: Trenitalia, la settimana scorsa, comunica che le novità sono “congelate”.
Cos’ era successo? Che, presi dal panico dei primi momenti, non ci siamo resi conto che le novità rigruardassero anche le valigie: insomma, il bagaglio normale, non quello “speciale” come bici o monopattini. Due colli a testa, di una certa misura e non oltre, altrimenti la stessa sanzione di cui sopra.
E questo ha salvato noi biciclettari: perché ci si sono messe di mezzo praticamente tutte le associazioni dei consumatori, fino ad arrivare a un’interrogazione parlamentare di Avs alla Camera.

Da questa storia traggo due conclusioni: in qualche maniera la bici si salva ma solo per fortuna, perché le associazioni delle due ruote sono infinitamente meno ascoltate di quelle dei consumatori; e che possiamo aspettarci i treni all’incontrario, come in “Azzurro”, in ogni momento. Eppure sarebbe così facile copiare dai paesi che praticano l’intermodalità da mezzo secolo.

No al Codice della Strage firmato Salvini

Si può lasciare un capitolo fondamentale della vita collettiva come lo mobilità delle persone in mano a un leader politico in evidente parabola discendente e alla scomposta ricerca di nuova luce dei riflettori per provare a risalire la sua china? In democrazia, ma anche nell’esperienza più animalesca e tribale, la risposta è no. Deve essere no. Eppure è ciò che sta accadendo, una volta di più, nell’attuale distopia italiana di cui, malgrado la riscossa elettorale sarda, non si riesce a intravedere una fine a breve. Nel frattempo il leghista alla guida del ministero dei Trasporti si agita come un forsennato blandendo l’anima più indisciplinata della società, che vuole mani libere e piede sull’acceleratore senza che nessuno possa fiatare sulla sua personalissima percezione dello spazio pubblico chiamato strada: è in arrivo una nuova versione del Codice della Strada firmato Salvini, immediatamente rinominato Codice della Strage da un folto gruppo di associazioni che si battono per portare un po’ di Europa moderna anche qui da noi sotto le Alpi.
Metto di seguito in fila le “novità”, in realtà un ritorno al vecchio così palese che sembra di vedere l’avvocato Agnelli alla guida dimostrativa della 500 in una foto in bianco e nero, tanto che un sottotitolo al nuovo Codice potrebbe essere “per strada continuate a fare come vi pare”.
Niente autovelox nelle strade a 50 km/h, un invito a correre. Nuova sospensione breve della patente solo con meno di 20 punti e solo se si va ad almeno 77 km/h in città. Delega al Governo per innalzare i limiti massimi di velocità. Ztl più difficili subordinandole alle esigenze della mobilità automobilistica e dell’economia, rendendo più attaccabili le delibere e ordinanze che limitano il traffico. Nuovo decreto del ministero che deciderà al posto dei Comuni, restringendo condizioni e modalità per poter creare Ztl e aree pedonali. Eliminata la possibilità di controllare e sanzionare con telecamere alcune infrazioni. Nuova possibilità di violare Ztl, aree pedonali e strade a transito vietato anche più volte ricevendo una sola multa al giorno anziché una per ogni infrazione. Della guerra alle bici neanche ne parlo, gli attacchi sono così tanti che il conto diventa difficile. Ne cito uno particolarmente criminogeno: obbligo per gli automobilisti di dare la precedenza ai ciclisti sostituito da un generico e inapplicabile obbligo di “prestare attenzione”.

In sostanza è tutto un ammiccare con sottotesti (appunto il fate come vi pare) al singolo automobilista re della strada, moltiplicato i quasi 40 milioni di conducenti che gravano sul territorio.

Si inaugura dunque l’era della mattanza in strada, in perfetto controcanto alla direzione mondiale.

Vorrei fare un parallelo con un altro capitolo tragico dell’Italia contemporanea, quella delle crescenti morti sul lavoro. Dalla recente strage di Firenze è stato portato all’evidenza pubblica che il ricorso ai subappalti ha aumentato le morti sul lavoro. Indovinate chi è che ha dato mano libera ai subappalti nella riforma del Codice degli appalti. Esatto, lui.

Città 30, contro Salvini la carica dei 235

La crociata di Matteo Salvini alle città 30 km/h dopo l’avvio della fase finale a Bologna si sta rivelando un assist formidabile alla misura di riassetto urbanistico. Solo Sanremo, al momento e per una settimana, è in grado di tenere il primo posto in classifica nelle chiacchiere che sento in giro: basta solo accennare al provvedimento e riecco Guelfi e Ghibellini in smagliante forma sbucare dalla vernice di civiltà che noi italiani ci siamo pennellati addosso. Non solo delle città 30 si parla qui al piano terra della società, l’effetto più importante, ma la carica della conservazione del predominio automobilistico ha portato allo scoperto persino architetti, urbanisti e esperti vari della gestione degli spazi pubblici, sia docenti sia amministratori. Il primo febbraio è stata pubblicata una lettera aperta ma diretta al ministro dei Trasporti in cui ben 130 di costoro spiegano perché le città 30 devono essere considerato un valore da perseguire e un destino ineludibile se vogliamo tornare alla città delle persone dopo la ultradecennale sbornia delle città per le automobili. Tra i firmatari ci sono due star del settore come Stefano Boeri e Matteo Ponti, insieme ai due “monaci guerrieri” delle città 30 Matteo Dondé e Alfredo Drufuca, quest’ultimo autore dello studio Polinomia che dimostra i benefici effetti di Bologna 30. Dopo la pubblicazione della lettera, che evidentemente non aveva raggiunto tutti coloro che potevano firmarla, c’è stata un’ulteriore pioggia di adesioni e nel momento in cui scrivo si superano le 235 firme. Tra queste mi colpisce quella di Anna Donati, che sigla come responsabile mobilità del Kyoto Club ma che al momento è presidente e ad di Roma servizi per la Mobilità, il braccio operativo dell’omonimo assessorato romano: la qual cosa mi fa ben sperare anche per la mia città.

La polarizzazione politica avviata da Salvini sta dando i suoi effetti, anche nei comuni amministrati dalla destra persino leghista: fioccano le cronache di primi cittadini che dicono “perché no?”.

A Bologna un altro effetto collaterale della cosiddetta rivoluzione 30 è l’aumento, conteggiato dai totem della tangenziale delle biciclette, di passaggi a due ruote a pedali. Una conseguenza dell’ormai poco usato senso logico: se devo andare al massimo a 30 tanto vale che lasci la macchina a casa e mi sposti in bici, che fa intorno ai 20 km/h solo aumentando lievemente la spinta della camminata. L’aumento dei passaggi in bici data dal 16 gennaio, giorno dell’effettività del provvedimento bolognese.

Un effetto straniante è infine l’avvio di cortei in auto e moto (e dicono anche bici, ma ci saranno incappate in mezzo) a passo d’uomo, che ricordo è di 5 km/h: ogni realtà contraria alla misura si sta organizzarla per renderlo un happening costante in città. Il provvedimento di Lepore, nel frattempo autonominatosi Asterix nella sua lotta ai romani-Salvini, viene definito “da Corea del Nord”.

Mi sa che questi viaggiano poco in Europa.

Dalla parte giusta della storia: Bologna 30

“I centri si svuoteranno… Ostaggio di immigrati…” Ho trovato questo stralunato commento, simile a tanti altri ma questo veniva dopo una specie di ragionamento su Bologna a 30 km/h, sotto il post Facebook di un amico che dirige una rivista di biciclette. I puntini di sospensione ammiccanti sono originali, non miei. L’aspetto interessante di questa opinione sbrindellata è che non viene da qualche analfabeta cognitivo ma da una persona che nella sua bio social elenca una serie di testate giornalistiche a cui collabora, dunque il suo problema non è nella scarsa strutturazione di pensieri e parole. Tuttavia riesce a tirare fuori perle di questo tipo.
Probabilmente la “rivoluzione bolognese” ha colpito duro nell’immaginario collettivo. Per la prima volta in un paese costruito intorno alla divinità automobile, unica divinità personale che ciascuno può toccare, l’idolo è stato buttato giù dal suo piedistallo in una città capoluogo di regione e neanche di quelle piccine o meno note. Il nuovo limite generalizzato ti dice in sostanza la semplice, direi banale, verità: la velocità uccide. La priorità assoluta non è il tuo personale comportamento allargato fino allo sconsiderato ma salvare vite in un contesto urbano che da decenni vede il mezzo pesante privato aver occupato ogni spazio e ogni pensiero, mettendosi al centro del modo di spostarsi nelle nostre tane di bipedi chiamate città.

In sostanza l’esperienza bolognese sta portando all’evidenza di ciascuno ciò che chi ha già cambiato modalità di spostamento vive ogni giorno: la società italiana si comporta collettivamente come un tossicodipendente. In questo caso la dipendenza è da automobile e il pusher è lo stesso Stato, che con poca lungimiranza e in nome probabilmente del lavoro e della raccolta fiscale -ometto le convenienze personali e partitiche- ha puntato tutto sull’automobile come mezzo privilegiato di spostamento fuori casa. Puoi sempre provare a portargli via la “roba” per salvargli la pelle ma quello diventa aggressivo e dunque aggredisce.

Meccanismo che Salvini maneggia perfettamente, ed eccoci a oggi: con solerzia i suoi uffici, che normalmente ci mettono anni o anche tempi infiniti tendenti al mai, hanno calibrato la richiesta direttiva che intralcia in tutta Italia anche la sola possibilità di mettere mano al disastro fatto in decenni. Pochi giorni di lavoro per esercitare una perfidia sottile: i 30 nei dintorni di parchi e scuole, dice la vulgata giornalistica. Il sottotesto è: si può rallentare nei pressi di luoghi ludici o frequentati da minori, però il resto del mondo è di noi adulti che abbiamo da fare e non possiamo rallentare la nostra operosa attività. Perfetto, da applausi. Ma a Salvini non conviene citofonare ancora a Bologna, di solito gli porta male.

E’ totalmente inutile con questo tipo di gente svolgere ragionamenti. Nei giorni scorsi è circolato un tweet di Milena Gabanelli, estremamente rilanciato: “Abito a Bologna e non c’è nessun caos. Si va a 30 km/h a Londra, Bruxelles, Helsinki, Barcellona, Zurigo, Madrid, Graz…dove hanno pensato che la vita di un bambino, un pedone, un ciclista valgono più dei 5 minuti persi a rallentare”.

Tra i protagonisti di questa rivoluzione bolognese c’è Simona Larghetti, ora consigliera comunale di Coalizione Civica dopo un percorso di attivismo in seguito al suo incontro con il movimento Salvaiciclisti a fine 2012. Ho chiesto a lei la sua opinione, eccola.


“A Bologna, città in cui è nata la prima università del mondo, non abbiamo paura delle novità e con il diverso ci abbiamo fatto marketing territoriale per mille anni circa”, mi risponde. “Salvini, che usa il Ministero delle Infrastrutture un po’ come la sua sala giochi, ha dichiarato guerra al provvedimento bolognese, preannunciando pazzesche direttive. Come si intestò le morti in mare, ora vuole intestarsi i morti in strada, cavalcando come sempre la reazione, la paura, il diverso. Dal 2013 mi batto per la città 30, perché non ci credevo nemmeno io, ma poi ho fatto la prova: 11 anni fa ho guidato rispettando questo limite, che mi sembrava assurdo, e mi sono accorta che in città, causa semafori, traffico e code inevitabili, i tempi di percorrenza sono gli stessi se consideriamo tragitti di pochi chilometri. Sui 30 km/h in città ho solo una cosa da dire: provate”. Lo ha fatto “dopo aver conosciuto Anna, un’attivista dell’Associazione Vittime della Strada che in un incidente stradale ha perso un pezzo di gamba e si è trovata un marito gravemente cerebroleso”. Ma cosa vuoi che importi a chi ha fretta e non sopporta limitazioni, come i bamboccioni al volante.