Festa della bici per non fare la festa alla bici

Questa volta non si manifesta ma si fa festa. Il motivo è abbastanza semplice -e come sapete tutti la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere, per gli adulti-: chi si muove in bici rappresenta l’unica fetta di popolazione che quando si sposta prova felicità.

E’ difficile per tutti ammettere apertamente che, vista nel suo complesso, la società italiana sia triste, quando non furiosa o preda di varie gradazioni di rabbia, nella pratica dello spostamento quotidiano. In fin dei conti anche noi che ci spostiamo in bici proviamo sentimenti negativi: ma questi nascono dal pericolo costante a cui siamo stati finora condannati in Italia, con abitudini di guida sostanzialmente criminali e che non accennano a diminuire o a essere anche solo parzialmente modificate. In un ambiente ideale lo spostamento in bici produce endorfine e il sorriso scaturisce naturale sulle labbra di chi pedala. In realtà io fischietto, perché quando sono contento mi piace ascoltare musica e non usando le cuffiette per avere anche l’udito ben lucido a fini di sopravvivenza sono costretto a produrre da me la musica che intendo ascoltare.

L’ambiente non è ideale in Italia. In un primo momento dopo il trauma del confinamento coatto causa Covid si era sperato che gli italiani avessero capito il valore assoluto del moto fisico, chiunque ricorda le lunghe file ai negozi di bici, svuotati in pochi giorni grazie agli incentivi ma si credeva anche grazie a quei momenti di libertà consegnatici dall’esercizio fisico in bici. Era illusione, naturalmente. Tutto è ripreso come e peggio di prima, città intasate quotidianamente, la mia in preda di continue trombosi nelle sue arterie intasate.

Inutilmente, peraltro: tonnellate di statistiche costanti ci raccontano da decenni che le automobili trasportano in media 1,2 persone e che nell’80% degli spostamenti individuali si percorrono 10 km.

Tutto inutile, gli italiani usano l’automobile come se fosse una bicicletta, ma non sorridono e sono pieni di guai, da quelli economici a quelli ben più seri dei danni a sé e agli altri e tutti provocati dall’abuso di un mezzo assurdo come l’automobile per spostarsi in città.

Uso indotto da decenni di lavaggio del cervello di un sistema incentrato su acquisto e dunque uso delle quattro ruote, laddove ne basterebbero ampiamente due a pedali per le necessità standard.

Sono decine per prove di questo incantesimo che attanaglia la società italiana convincendola che per muoversi ha bisogno di una quattroruote. L’ultima, sorprendente per me, è la congerie di articoli sul boom delle microcar elettriche: roba che non puoi portare in spalla, ha la capacità di carico delle mie due borse da bici, si ferma in coda come qualsiasi Suv e via dicendo. A Roma e provincia, mentre scrivo, siamo arrivati a 62 morti in strada e ognuno di questi ampiamente evitabile.

Non credo che usciremo da questo stato di incantesimo con interventi istituzionali, per il semplice fatto che il sistema basato sull’automobile è il primo contribuente fiscale italiano e chi strozzerebbe la gallina che dà le uova.

In questa condizione abbiamo deciso di festeggiare l’unico mezzo che di suo non ci dà problemi, con noi da un paio di secoli, dalla manutenzione vicina allo zero e in grado di percorrere molti km km solo mangiando una banana, o parecchie decine con una colazione robusta.

Il 3 giugno è il giorno identificato dall’Onu come Giornata mondiale della Bicicletta, ennesima buffonata che però almeno consente di segnare un giorno sul caledario, e guarda caso il giorno dopo la Festa della Repubblica che in Italia si festeggia facendo sfilare forze armate a bordo di mezzi militari di cielo e terra, quelli di mare sono esclusi sol perché la kermesse si svolge lungo via dell’Impero.

Il mezzo pacifico invece si concentrerà questo sabato lungo l’Appia Antica. Per tre ore di chiacchiere e svago dalle 10 alle 13 all’altezza del Quo Vadis, la domanda che Pietro rivolse a Gesù mentre scappava dalla persecuzione romana e che noi vorremmo rivolgere a tutti quegli sventurati che davvero credono all’automobile come mezzo di spostamento personale in città. In seguito alla festa di strada sulla via più antica del nostro paese ancora in funzione e abusata da mezzi a motore di ogni tipo, e in lizza per diventare patrimonio Unesco al pari del centro di Roma -ugualmente abusato- ci sposteremo sui prati adiacenti per un mega picnic collettivo e fare rifornimento al nostro mezzo preferito portando il metabolismo che lo muove al pieno di carburante. E’ consigliato portare cibo e bevande da condividere, oltre a un telo per stendersi comodamente sul prato. Strumenti musicali unplugged o elettrificati benvenuti, molti di noi biciclettari utilizzano delle casse bluethoot per ascoltare musica mentre si viaggia.

Si tratta di una festa ma l’abbiamo collegata al problema più gigantesco che l’umanità si trovi davanti, il cambiamento climatico causato dalle nostre rapaci abitudini. E’ anche stato messo sul sito festadellabicicletta.it a punto un documento scientifico che spiega come e perché la bicicletta sia il mezzo fondamentale per contribuire a far abbassare la febbre al pianeta.

Noi sappiamo che rimarremo inascoltati, molte sono le prove che l’autobus che ci sta portando a sbattere contro un muro di granito abbia addirittura accelerato la sua corsa, con incentivi a fonti fossili e persino all’industria militare. La tragica alluvione in Romagna ha già finito il suo effetto di allarme. Non intendiamo lasciarci scoraggiare e continuiamo a proporre questo stile di vita leggero e vorrei dire soave come parte di un cambiamento collettivo necessario per la nostra sopravvivenza come specie. Il Comune di Roma ha deciso di concederci lo status di “evento di interesse pubblico” e lasciarci occupare l’Appia Antica senza farci sborsare un euro. Il patrocinio è arrivato anche dal Parco Archeologico, che ci lascerà usare le sue strutture adiacenti.

La festa è aperta a chiunque si presenti in bici o a piedi, ci vediamo lì.

La Festa della bicicletta il 3 giugno nella capitale più arretrata d’Europa

C’è sempre bisogno di una buona bicicletta, attrezzo che sta con noi nella sua forma attuale da un paio di secoli e finora ineguagliato nella sua efficacia trasduttiva: riesce a moltiplicare l’azione delle gambe di diverse misure, velocizzando l’andare del corpo. Da qui il termine velocipede, dal sapore desueto e che ancora esiste ufficialmente, nel nostro codice della strada, il più arretrato del mondo civile e se modificato quasi mai è a sfavore nel mezzo più arretrato in assoluto, l’autovettura come attrezzo di spostamento personale in qualsiasi ambito, persino all’interno degli asili d’infanzia. Un mezzo, pensate, che si muove usando una serie rapidissima di esplosioni indotte grazie all’utilizzo di vari liquidi infiammabili derivati dalla lunga putrefazione di resti biologici risalenti all’era dei dinosauri. Arretratezza che si rispecchia nell’attualità della capitale d’Italia, Roma. Luogo dove i pedoni ringraziano i rari automobilisti che si fermano sulle strisce pedonali (da qui l’usanza di ringraziare), dove il parcheggio in doppia fila viene percepito come un diritto, da cui le aggressioni verso eventuali, e quasi alieni, controllori del traffico che multano. In particolare questa usanza -plurime file di parcheggio lungo la carreggiata formalmente destinata allo scorrimento- viene percepita come una fatalità da sempre: per esempio il povero Mario Di Carlo, assessore anni ’90, scomparso nel 2011, la definì inevitabile durante un intervento radiofonico e fu crocifisso, ipocritamente, per questo; concetto che ho sentito esprimere nelle sue linee di fondo l’altra sera dall’attuale assessore, con qualche cambiamento di sostanza: l’assessore in carica la definiva come una calamità derivante dal semplice fatto che lo spazio è finito e le macchine sono troppe, da cui l’esistenza del parcheggio illegale. In tre decenni dunque l’incessante lavorio culturale della società interessata al cambiamento è riuscita a produrre questo slittamento: la doppia fila da necessità a calamità. E tuttavia la doppia fila resta.Il situazionismo politico attuale mi ha portato anche alla gustosa visione di un tweet dell’attuale sindaco che definiva Roma pulita proprio mentre consultavo la mia tweet list davanti a un bar all’angolo tra via dei Serpenti e via Leonina, con sullo sfondo il Colosseo e poco prima una pila di monnezza che superava abbondantemente l’altezza dei cassonetti.

Qui da noi esiste anche una via famosissima nel mondo, e che io sappia l’unica in Occidente che è stata candidata a patrimonio Unesco: l’Appia Antica risale al 312 avanti Cristo ed è incessantemente percorsa da autovetture e altri mezzi pesanti persino sui grandi basoli all’altezza della tomba di Cecilia Metella, vissuta nel I secolo aC.

Proprio per questo una serie di associazioni ha pensato di celebrare il 3 giugno, che l’Onu ha destinato alla bicicletta, lungo l’Appia Antica davanti al luogo dove il mito cristiano ricorda l’incontro tra Pietro e Gesù, con il primo che chiede al secondo “Domine, quo vadis?”.

Lì terremo il 3 giugno un raduno giocoso, con musica e altre iniziative, dalle 10 alle 13, per poi trasferirci a fare un grande picnic sui prati del parco adiacente. L’obiettivo è dare pace, per quelle poche ore, all’Appia Antica come simbolo di tutte le strade del mondo abusate dalla veicolarità privata. E festeggiare la bicicletta.

Preferisci perdere 24 secondi al giorno o 32 anni di vita?

La scorsa settimana sono andato all’edizione 2023 di Mobilitars, tre giorni di seminario sulla mobilità di un futuro che sembra sempre più sfuggente. Ero chiamato a gestire un dibattito sul “Racconto del cambiamento” cercando un filo comune tra tre narrazioni diverse, quelle di una docente universitaria, di una pubblicitaria e di un giornalista. Il mio arrivo a metà mattinata a Bologna non mi ha consentito di ascoltare i dibattiti precedenti: chi invece c’era mi ha riportato l’intervento di Alfredo Drufuca, ingegnere e anima dello studio Polinomia, che mi ha fatto balzare sulla sedia come dopo una scossa. Drufuca ha presentato la sintesi di uno studio commissionato dal comune di Bologna dal titolo “Stima dell’impatto della Città 30 sul benessere sociale”. Nel corso della sua esposizione, mi ha raccontato chi c’era, ha anticipato le conclusioni dello studio completo, non presenti nelle slides proiettate, in cui si dimostra matematicamente che nella struttura studiata da Bologna il tempo perso dall’utenza motorizzata è in media di 24 secondi al giorno, 12 secondi a tratta. I calcoli sono complessissimi, vi dovete fidare anche perché ho telefonato ad Alfredo e ho cercato di farmi spiegare a voce; venti minuti dopo mi sono arreso e gli ho chiesto di scrivermi i passaggi in estrema sintesi: ho studiato le 4 pagine di sintesi che mi ha inviato e vado a scoprire che, secondo una loro elaborazione sui dati Istat 2021, “gli anni mediamente perduti per un decesso in incidente stradale sono circa 32”.

Avete capito bene: l’estrema sintesi dello studio dimostra che portare una città a diventare un’immensa zona 30 rallenta il glorioso andare dell’homo automobilensis di 24 secondi al giorno, abbatte le morti in strada e di conseguenza annulla virtualmente i 32 anni di vita in meno in media che l’attuale sistema stradale assassino ruba. Ci sono anche dei calcoli economici sul guadagno, raddoppiato circa, in termini collettivi, senza contare che per ogni morte evitata si risparmiano oltre 2,8 milioni di € a testa.

E’ una specie di terremoto per gli istinti belluini della popolazione attuale, se questa uscisse dalle sensazioni istintive e entrasse nel mondo della logica.

Un mondo della logica che evidentemente non riesce a trovare ascolto, visto che mentre scrivo un altro camion ha ucciso il terzo ciclista in 5 mesi a Milano con la stessa identica dinamica delle altre due precedenti: schiacciato in curva a causa dell’ormai noto angolo cieco del mezzo pesante. In colpevolissimo ritardo sia il sindaco Sala sia l’assessora Censi, non di loro spontanea volontà ma sollecitati dai giornalisti locali, hanno annunciato un’accelerazione per adottare l’ordine del giorno approvato all’unanimità dal consiglio comunale, pronto da tempo a firma Mazzei ma rimasto un po’ lì a galleggiare, che prevede l’obbligo di sensori. Dicono in tempi rapidi, forse il primo luglio: il che vuol dire in media altri due morti di cui non conosciamo ancora il nome.
Nella mia coscienza è ben presente l’assurda distanza tra chi si affanna a organizzare convegni come Mobilitars, o manifestazioni in strada come a Milano dopo ogni morte iniqua dovuta alla violenza motoristica, o la prossima che stiamo organizzando a Roma per il 3 giugno in un luogo altamente simbolico come l’Appia Antica, e le continue morti in strada nell’indifferenza generale. Un’indifferenza sistemica, dove il matrimonio mortale tra l’interesse dell’industria e la storica fascinazione italiana per l’automobile impedisce ogni ragionamento sulla via da scegliere per una vita degna in strada.

E’ praticamente certo che i calcoli di Polinomia verranno serenamente accantonati proprio perché la logica non interessa e l’indifferenza di sistema per i destini personali, se di ostacolo ai profitti dell’industria, ha trovato il suo alleato naturale in una passione motoristica che guarda caso ha i suoi templi proprio in Emilia Romagna.

Ma si continua a voler ragionare, in questa minoranza di non infatuati dei prodotti del marketing.

In questo la comunicazione è fondamentale. Finora l’abbiamo fatta un po’ artigianalmente e sempre a Mobilitars la docente associata di Linguistica Cristina Caimotto, dell’Università di Torino, ha sorpreso l’intera platea, largamente formata da attivisti e “cultori della materia” per così dire, svelando che molte delle frasi che noi usiamo hanno un effetto negativo su chi intendiamo convincere. Dobbiamo cambiare registro. E forse cominciare a passare alle azioni concrete.

“Abbiate il coraggio di vietare le biciclette”

Avrete tutti fatto caso che la morte di Cristina a Milano, morta questo aprile sotto le ruote di una betoniera in curva, ricalca la stessa dinamica dell’altra orribile fine della sua coetanea Veronica, sempre a Milano a febbraio scorso. I ciclisti milanesi, instancabili quanto impotenti e senza la forza di dare fuoco a un qualsiasi edificio pubblico per ovvi motivi, hanno manifestato l’ennesima volta. Ne parlo perché mi ha colpito l’intervento di uno dei compagni della locale Critical Mass, Angelo: “Almeno abbiate il coraggio di vietare le biciclette in città, se non siete capaci di intervenire per proteggerci”.
Per chi non è un cicloattivista, come invece lo è Angelo, vorrei sottolineare che questa frase è terrificante nella sua innocuità, e deve risultare piacevole solo a un qualunque presidente dell’Aci locale di ogni territorio. Per chi invece segue queste vicende come me e mi auguro un numero crescente di persone qui si è toccato un limite -anche piuttosto pericoloso se fossimo francesi-: l’utilizzo sempre peggiore delle nostre strade ci sta portando al nucleo della questione, ovvero è del tutto evidente l’impossibilità di convivenza in strada della mobilità attuale con quella del futuro.

Intendiamoci, i mezzi pesanti da lavoro in città non sono come le auto private per lo spostamento personale da quasi 700 persone su mille in Italia: hanno per ora una loro funzione, a parametri invariati. E non è la velocità in questo caso a uccidere ma l’ingombro e la presenza degli angoli morti di manovra. Cioé un altro parametro con cui chi ha scelto di muoversi in bici deve fare i contro a ogni dannato metro che percorre. Non bastavano i milioni di matti che corrono solitari in città nelle loro auto private.

“Vietare le biciclette”: ma non si accorge nessuno di quanta disperazione ci sia in questa frase? A me pare impossibile, e infatti credo che -siccome è stata sentita bene dentro palazzo Marino- sia stata accolta con il consueto sonorissimo niente di fatto.

Perché questa ormai risulta essere la cifra degli amministratori moderni italiani: non scegliere. Mai. Qualsiasi cosa accada. Soprattutto se porta fatica, sottrae consenso nell’immediato (leggi: in corso di mandato), dunque non conviene. Lo vedo bene a Roma, dove il sindaco, da noi chiamato “il cartonato” per la sua bidimensionalità, non prende posizione se non sull’inceneritore o su circenses come lo stadio, giochi vari tipo il Giubileo, l’Expo.

Apro il dizionario alla voce “governare”. L’etimo, mi ricorda Treccani, viene da “gubernum”, il timone della nave in latino, da cui governo come lo conosciamo noi, ed è il significato più antico. So andare a mare e l’ultima cosa che va fatta in barca, a parte abbandonarla se affonda, è lasciare il timone libero senza alcuno al governo. Apro quindi il Guglielmotti, vocabolario marittimo: “Reggere, Aver cura, Provvedere col pensiero e coll’opera ai bisogni presenti e futuri di ciò che è sotto la sua custodia o giurisdizione”.

A me sembra che oggi a ogni timone italiano ci sia il “nocchier della livida palude”, ovvero Caronte. E allora vietate le bici e fateci traghettare agl’Inferi, come già avviene. Fate ridere il mondo, su.

Il “boomber” e il tranviere: macché mistero, solo folle velocità

Alcuni giornali, come la Repubblica nella cronaca di Roma, hanno titolato “Il giallo del semaforo”, Roma Today lo definisce mistero. Lo scontro di domenica mattina presto tra il suv di Ciro Immobile e il tram 19 sul ponte Matteotti a Roma, che scavalca il Tevere andando da Flaminio a Prati, sta facendo discutere questa dannata città. La macchina del capitano della Lazio è distrutta davanti, il tram è stato deragliato con 40° di scostamento, danni ne ha ricevuto pochi ma circola da lunedì la foto del poveretto alla guida del tram, un signore di 55 anni, svenuto per la paura o il trauma, vai a sapere, riverso nella cabina di guida (lì per lì invece non se l’era filato nessuno, tutti preoccupati del bomber, anzi boomber visto il casino fatto, della Lazio). Per il calciatore costola fratturata e trauma alla colonna vertebrale, le due figliolette con due microfratture e immagino tanto spavento, per il tranviere prognosi di sette giorni, danni non pervenuti. Il calciatore sostiene di essere passato col verde, lo stesso fa il lavoratore Atac. I cardatori di lana caprina hanno avuto da subito il loro da fare per scusare il campione. Lo svacco calcistico si è oltretutto messo di mezzo: non ti puoi azzardare a commentare che salta su qualcuno e ti dà del romanista che odia i laziali, una pena infinita. Illuminante un fondo agiografico di Marco Lodoli, tifosissimo e dunque un piagnisteo.

Il suv di Immobile (tal Defender della Land Rover,) veniva dal semaforo di lungotevere delle Armi, dove la vista è sgombra. Il tram veniva da piazza delle Cinque giornate, partito dalla fermata a ridosso del suo semaforo. La pagina Facebook del blog CityRailways, animato dall’ingegnere e urbanista Andrea Spinosa, ha pubblicato in tempo quasi reale, domenica stessa, una valutazione misurata di quanto accaduto usando le formule dell’impulso, roba astrusa che non capisco ma a quanto pare efficace. CityRailways è risalito alla velocità del Suv considerando essenzialmente tre fattori: il peso dei due mezzi (2.600 kg il suv, 30.500 più 25 persone a bordo su due carrelli il tram) e l’angolo di spostamento del tram, appunto 40°. A calcoli fatti il Suv ha colpito a 79,7 km/h. Dal semaforo sul lungotevere al luogo dell’impatto ci sono una trentina di metri.

In sintesi: dal semaforo al botto la distanza è poca, la vista è sgombra, le valutazioni sono facili. Mi sono fatto un’idea di come sia andata, dopo un sopralluogo lunedì scorso. Non ci sono andato apposta, passavo da quelle parti e ho pensato di fare un salto e verificare di prima mano le fasi semaforiche e le dinamiche dei vari mezzi.

Se i calcoli di CityRailways sono corretti non c’è modo di raggiungere gli 80 all’ora da fermo al semaforo con quel mezzo, quasi 100km/h in 30 metri non credo sia possibile con mezzi omologati per la circolazione stradale, dunque non era fermo; con il tram fermo al semaforo è dal lungotevere che scorrono i mezzi e quando scatta il via libera per il tram (barra luminosa bianca verticale) si deve fermare il lungotevere: per qualche tempo, come uso a roma, le macchine sul lungotevere continuano invece a passare, il solito fenomeno dell’accelerazione al giallo, ma non credo che ci sia il tempo per il tram di occupare l’incrocio durante il passaggio abusivo; lo scontro, dicono le cronache, si è verificato domenica mattina alle 8,15: è plausibile che le strade fossero vuote o quasi.

La mia opinione è che il suvvista abbia accelerato al giallo e bruciato il rosso, forse stimando che non passasse nessuno. A questa opinione si stanno lentamente avvicinando le cronache locali, ma col bilancino e sempre dando spazio all’avvocato del calciatore, non a quello del lavoratore.

Per ora il dibattito è sulle condizioni del calciatore, il suo stop per almeno due turni di campionato, lo spavento, i problemi che porta alla squadra la perdita temporanea di un pezzo così pregiato tornato recentemente al gol dopo un periodo a secco. I Tg locali sottolineano che “se fosse stato su un’auto più piccola i danni sarebbero stati ben maggiori”, mostrando la consueta cecità e anzi alimentando la spirale perversa macchina grande/grande sicurezza (per chi è dentro, ovvio). E ignorando, al solito, il fattore velocità moltiplicato peso.

Per noi moderni frequentatori dei percorsi urbani è ovvio, senza fare sopralluoghi o studiare le arcane formule di CityRailways, che quel famoso personaggio corresse come tutti in Italia, quindi come un matto, nella solita indifferenza e acquiescenza collettiva.

A me personalmente rimane in testa l’immagine del macchinista svenuto dentro la cabina, un qualsiasi lavoratore di cui non frega niente a nessuno.

Sì: viaggiare

Non evasione ma immersione: questo è il senso profondo del viaggio in bici, che è radicalmente diverso da quasi ogni altro viaggio. Ne ho conoscenza diretta perché non solo viaggio in bici ma lo faccio anche via mare, a vela, da decenni. Una dimensione radicalmente differente da quella terrestre di superficie, e per questo nel viaggio in bici trovo una sorprendente assurdità: nel mio modo di interpretarlo il girovagare in bici è un’esperienza sensoriale intimamente legata alla parte inorganica del mondo.

Può naturalmente sembrare assurdo ma, a differenza dell’immersione nel pozzo antropico del mondo se viaggio con altri mezzi, mentre lo faccio in bici aria e luce sono esaltati dall’odore della strada, certamente mischiato con quello della vegetazione o dell’impronta antropica circostanti. Ma riesco a distinguere, grazie alla bici. Il percorso in altura lascia sentire la traspirazione delle pietre nel corso delle ore e raggiunge il mio olfatto, così come quello desertico -che prediligo- dove l’odore minerale è aspro, secco, totalmente inanimato, senza traccia del bellissimo verde che è stato il primo abitante di questo pianeta.

Così non è a mare, dove non so perché, o forse per il mio esserci cresciuto/formato accanto, sono assolutamente convinto di viaggiare sulla pelle di un essere organico immenso (a torto, dice la ragione; a ragione, dice l’animale che sono. Dualismo ormai inestricabile e pazienza, va bene così).

Il viaggio come fuga dalla quotidianità si chiama turismo, non è quello che mi interessa. Mettere la ruota anteriore fuori dal portone significa invece anelare al ritorno nella stranissima condizione di non esserne preoccupati più di tanto, o perlomeno questo è uno dei capisaldi del viaggio in bici. “Avventura”, nei nostri immaturi tempi, significa fare qualcosa di speciale da raccontare agli amici se se ne esce interi; ma viene dal latino “ad ventura”, andare verso le cose che accadranno. Non è ricerca di guai da cui sbrogliarsi ma consapevolezza piena del futuro come dimensione totalmente ignota, parzialmente prevedibile ma sicuramente aperta a svolte imprevedibili.
Viaggio in bici come ad ventura significa per me, nel suo livello più lucido ed esperito, andare avanti come un bimbo nel mondo, sempre meravigliato e sempre fiducioso, E’ nel nostro quotidiano che siamo pronti a essere delusi, non certo nella dimensione del viaggio, aperta a tutto compreso la delusione.

E dunque la prima domanda, dopo tutto il pippone filosofico intimistico: qual è il numero perfetto di viaggiatori in bici? La mia risposta, quella che neanche mi dò più, tanto è un lato assodato al pari della forza di gravità, è “1”. Il viaggio in bici lo fai da solo, e siete pure in troppi a dire il vero. Quando ne parlo con altri mi nascondo dietro le scuse plausibili standard, ovvero “ognuno ha il suo ritmo, può succedere di litigare per inezie, la fatica porta i nervi a fior di pelle”.

Tutte cazzate. Ma come faccio a dire “voglio stare con me, immerso nella parte inorganica mentre sono ancora in vita”? Ne partirebbero discussioni anche potenzialmente offensive, lascio perdere dunque.

Per altri però -e li capisco- l’immersione non è tale se non condivisa.
Esiste un testo molto lontano da chi si interessa di bici che spesso cito a chi ha questo tipo di attitudine, ed è “Eolie di vento e di fuoco” di Gin Racheli, scrittrice ora non più tra noi, che però ha avuto una formazione intensamente sociale, passando la sua prima vita come dirigente industriale e poi attivandosi in un gruppo piuttosto fricchettone (new age anni ’70), l’Unione Coscienza di Milano. Per Racheli la “vacanza” intesa nel senso latino di otium va declinata come spazio di coltivazione interiore di gruppo e al contempo coltivazione ricreativa di sé. Diversi viaggi di gruppo alle Eolie li hanno spinti ad approfondire sempre più quella dimensione, e ne è uscito uno dei più bei libri di viaggio in italiano che io conosca. Credo che si trovi ancora nella collezione Biblioteca del mare di Mursia, tengo la mia copia in grandissimo conto.

Mi allontano da lei, anche se mi ha insegnato tanto. Trovo necessario sentir scorrere le ruote sottili del nostro mezzo, inalare l’odore della Terra, che è in dualismo con il Mare. E imparare nuovamente a orientarsi, nutrirsi, difendersi dal caldo e dal freddo, sentire il lento esaurimento delle forze e fermarsi prima della fine di queste.

Il viaggio in bici è un atto carnale e minerale insieme.

Meccanica di base: la lubrificazione

Sempre lungo la linea del back to basics rivolto a chi utilizza la bici in città da poco o magari anche da tanto ma vuole dare una ripassata, vorrei parlare di lubrificazione e di pochi altri principi generali: il primo tra questi è ricordare sempre, in ogni istante di cura del mezzo, che quella della bicicletta è una meccanica semplice. Sono consapevole di ripetermi ma credo che sia una bussola da tenere in gran conto.

Sono tre gli elementi in movimento mentre la bici percorre la strada: gli assi del mozzo e quello del movimento centrale; un quarto non ha un andamento rotatorio ma ugualmente si muove, e si tratta delle maglie della catena. Lubrificare questi elementi è importante: un attrito tendente a zero significa meno fatica nell’avanzamento. In commercio ci sono diversi lubrificanti anche specializzati per effetto molto efficienti ma abbastanza costosi. Io li uso perché privilegio allontanare l’attrito, ma per lavori di base e con poca spesa la combinazione migliore è aggiungere un po’ d’olio minerale alla benzina. Bisognerebbe evitare il gasolio: contiene paraffina che s’impasta magnificamente con le polveri sottili di cui le nostre città sono piene. In diversi lo usano ma bisogna ripetere periodicamente l’operazione di ripulitura e lubrificazione.

Benzina e olio insieme hanno un effetto sia ripulente sia lubrificante, l’evaporazione della benzina lascia un sottile velo d’olio minerale penetrato nei meccanismi grazie al solvente benzina e meno soggetto della paraffina a raccogliere rumenta. La mistura si passa con un  pennello, avendo cura di non toccare i meccanismi frenanti. Una volta finita l’operazione è bene passare leggermente un panno, soprattutto sulla catena, per evitare gli eccessi di lubrificante che possono andare qui e lì mentre si pedala. Inutile dire che il costo è irrisorio, e inoltre offre anche a noi la soddisfazione di recarci dal benzinaio almeno una volta l’anno come se fossimo italiani standard.

Un altro elemento mobile sono i fili dei freni e in genere il sistema frenante: per i fili, senza doverli smontare, si possono usare i tanti spray sbloccanti in commercio, che invece non vanno usati su mozzi e catena perché tendono a seccare:si spruzza piano dentro le guaine del filo e si agisce sulle leve per far entrare meglio lo spary. Lubrificare con la massima attenzione le parti mobili di freni per non mandare lubrificante sui pattini dei freni o sui cerchi, cosa che vanificherebbe la frenata con le conseguenze che è facile immaginare. Magari non ci crederete ma c’è gente che pensa di lubrificare i dischi dei freni per farli scorrere meglio.

In un ambiente ideale mentre una bici è in marcia l’unico suono che viene prodotto è il fruscio dei copertoncini sul fondo stradale: ogni altro rumore va eliminato per ottenere il massimo del piacere nell’andare. In questi casi il principio generale è prima ascoltare, poi immaginare l’origine, quindi osservare la parte da cui si stima provenga il rumore molesto. L’osservazione delle parti della bici è fondamentale nell’individuazione del problema.

Se si fa più fatica del solito ad avanzare, o si sente un fruscio, probabilmente qualcosa tocca da qualche parte: si scende dal sellino e si avanza spingendo la bici a piedi osservando se la gomma tocca il telaio, se un freno tocca il cerchio. Se non lo si vede immediatamente sarà meglio mettere sottosopra la bici poggiandola in terra con sellino e manubrio e osservare più da vicino.

Come si sta in sella: una guida pratica

Ogni tanto mi stufo di denunciare le storture stradali italiane e mi concentro sulla parte bella del muoversi in bicicletta. Mi i è venuto quindi in mente di dare il via al podcast “La città delle biciclette (su Spotify, Anchor, Podbean) che ha l’obiettivo di aiutare i nuovi utenti della bici a muoversi meglio in città, serenamente e perché no anche con gusto: il gioco è proprio questo, muoversi in bicicletta è bello e divertente, un aspetto che non viene abbastanza sottolineato. “La malinconia non è prevista in bici”,ha detto qualcuno. In una puntata -che ripropongo qui- parlo per esempio di come si sta in bici, partendo dai principi generali: non andrebbe mai dimenticato che la bici è un mezzo semplice. Il nostro non è un mezzo come gli altri: se ci fate caso, per esempio le motociclette non hanno lo stesso modello con diverse misure: se sei alto puoi acquistare modelli alti, se basso modelli bassi, ma nulla vieta ai bassi di andare su enormi enduro o agli alti di circolare su motociclettine. Questo perché il nostro mezzo ha in noi il suo motore e l’ergonomia è fondamentale.

Per questo i ciclisti esperti criticano quelli che lasciano bassa la sella. Chi lo fa è perché si sente più sicuro nel poggiare i piedi a terra abbastanza di piatto se non del tutto, mentre la corretta altezza della sella ti consente di poggiare solo le punte. Però è importante, perché con la sella bassa si pedala scorrettamente e dopo poco fanno male le ginocchia, oltre a utilizzare l’energia di pochi muscoli mentre altri rimangono inerti; oltretutto ce li trasciniamo dietro senza che facciano il lavoro a cui sono destinati, è peso inutile. Con l’altezza giusta, che ovviamente cambia da corpo a corpo, quando il pedale è in basso la gamba deve essere leggermente flessa, in modo da non sollecitare l’articolazione del ginocchio.

Il nostro contatto con la bici si verifica in tre punti: sella, manubrio e pedali. Sull’importanza di una buona sella siamo d’accordo tutti ma finora non si è riusciti a escogitare un modo per acquistare al primo colpo la sella perfetta per sé. Dovrete fare le vostre prove, non si scappa.

I pedali devono avere la caratteristica di non far scivolare le suole, una cosa che ti può mettere in difficolta nei momenti peggiori, per esempio quando piove o quando devi scappare velocemente da un momento di confusione stradale. Alcuni usano gli attacchi, non facili da usare per i principianti e anche costosi, altri i pedali cosiddetti flat, che hanno una presa molto forte e non hanno bisogno di scarpe specifiche. In ogni caso devono avere un grip il più possibile efficace, anche se alla lunga tendono a rovinare un po’ le suole. E importante che la pedalata si svolga mettendo al centro del pedale la parte del piede da cui partono le dita, così da usare al completo i muscoli della gamba. La famosa “pedalata di tallone” annulla completamente l’azione del polpaccio e va evitata: si verifica quando la sella è troppo bassa. Per le manopole o il nastro da manubrio le scelte diventano personali perché si tratta di elementi che danno anche uno stile alla bici, quindi fate un po’ come vi pare purché non siano scivolosi. Importante anche afferrare saldamente il manubrio o la piega da corsa: sembra banale ma vedo troppe persone che non usano l’opponibilità del pollice alle altre dita. Lo sguardo deve essere dritto e periferico: guardare l’orizzonte migliora l’equilibrio, mentre non focalizzarsi su qualcosa o qualcuno lascia intravedere movimenti circostanti che potrebbero crearci dei problemi.

La stagionale ruota del criceto*

Ormai ho una sola certezza nella mia vita di cicloattivista: a ogni allarme via stampa sulla mortalità stradale per i ciclisti salta fuori sempre l’idiozia “rendiamo obbligatorio il casco”. Succede ogni anno, più o meno in primavera, quando gli organi d’informazione, al pari di mondo vegetale o animale, stiracchia le proprie membra e si accorge che c’è gente che si muove in bici. Il passo verso l’allarme è breve: c’è gente in bici dunque rischia. La cosa viene dipinta con gli stessi toni, sempre, e con i medesimi accenti e inflessioni della descrizione di un gruppo di malcapitati in una savana ostile. Nella savana ci sono bestie grosse e pericolose (sottotesto: che ci sei andato a fare, sciagurato?), chi ci si inoltra lo fa “a suo rischio e pericolo” (cit. Dario Esposito quando era assessore a Roma, uno dei killer politici di Ignazio Marino), è in buona sostanza un deficiente che deve essere messo in grado di non nuocere a sé stesso.

L’ultima occasione è stato un rapporto dell’Asaps, amici polizia stradale, ripreso con grande enfasi dalla newsletter di Stellantis, volgarmente “La Repubblica”. Salvini. Ed eccoci ripiombati nella solita ruota di criceto annuale.

Attenzione: non lo dice l’Asaps ma il responsabile sicurezza della Federciclismo, Roberto Sgalla. Sgalla è stato prefetto di polizia prima di andare in pensione, e tra le sue responsabilità in fine carriera c’era anche quella della Polstrada. Salvini. Per noi addetti ai lavori non è una novità: da anni quel signore dice queste cose, regolarmente spernacchiato. Né è tanto grave che la newsletter le riprenda. Stavolta è accaduto qualcosa di diverso, e a mia memoria mai accaduto prima.

Il salto grave è questo: se finora a farsi spazio sui giornali erano dei peones parlamentari che nessuno ha mai sentito nominare, stavolta è stato un sindaco. ministro. Cioé colui che per sua natura deve assicurare che nella sua città suo paese non si svolgano efferatezze stradali. Niente di più facile, per un qualsiasi sindaco ministro italiano, di sfilarsi dal casino circolante nelle feroci città italiane che non addossare alle vittime la colpa di esserlo. E’ una prima assoluta, ripeto. Ma si sa è la savana, ci sono bufali leoni e iene e che fai, parli con i bufali? “Troppo difficile e anche poco popolare”, pensa il sindaco ministro: quindi tu, scemo che giri in mezzo a una sparatoria che nessuno riesce a fermare tanto meno io che ne ho la responsabilità, o stai a casa o indossi un’armatura. Obbligatoria per legge.

E’ interessante notare che tutti in Italia si riempiono le gote di “mobilità sostenibile”. Salvo poi decretarne l’irrilevanza davanti all’immutata violenza stradale, che è fenomeno naturale e dunque non governabile. Faccio una previsione facile: la prossima primavera qualche stordito farà la stessa identica proposta, e nel frattempo magari i morti sono stati schiacciati da un’automobile elettrica. Soooo green.

*Il testo sopra è stato pubblicato il 18 aprile 2021. Forse per il Covid ho sbagliato la previsione, non è stato durante la primavera 2022 ma alla fine dell’inverno 2023. Ho solo sostituito i protagonisti di allora con l’attuale ministro del ponte sullo stretto di Messina. Non ci ho messo niente a farlo, è stato facile quanto banale. Naturalmente il soggetto in questione, che tende a esagerare, mette sul piatto altre amenità come targa, assicurazione e frecce.

Manifestazione perenne per dare una spallata alla città dell’automobile

Da qualche tempo si moltiplicano i segnali di una crescente insofferenza per lo stato bieco in cui abbiamo ridotto le nostre città, fatte crescere negli ultimi decenni intorno all’automobile. Al momento si tratta ancora di un sentire diffuso a macchia di leopardo negli strati sociali, ma è in crescita e le varie isolette di pensiero si stanno connettendo lentamente ma con una progressione che mi sembra evidente. Il capostipite di questo sentire è ovviamente la quieta rivoluzione olandese degli anni ’70, che anche grazie alla tipica serietà calvinista di quel popolo riuscì a mettere spalle a terra il modello autocentrico delle città, che era identico a quelle di ogni angolo d’Occidente, e stravolgere l’uso dello spazio pubblico, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti e una vivibilità delle strade e delle piazze tornata, semplicemente, la modello precedente: la città per le persone, cosa che andava avanti dai tempi della scrittura cuneiforme in tutto il globo, e solo con la motorizzazione di massa cancellata dal ricordo di tutti.

Questa nuova risensibilizzazione alla destinazione d’uso delle nostre tane chiamate città è però ancora fragile e bisognosa di farsi un po’ le ossa dure, entrare nella coscienza collettiva. Questo è il senso del manifestare: rendere manifesto un bisogno più che un sogno, una necessità di cambiamento, una strada diversa rispetto a quella recentemente percorsa. Ne parlo spesso e altrettanto spesso mi viene un senso di scoramento di fronte agli scarsi risultati delle tante manifestazioni e flash mob che noi ciclisti urbani mettiamo in campo da anni, ma poi mi passa, mi risale la rabbia per l’ingiustizia sociale della città dell’automobile, disgregatrice e divoratrice di risorse spaziali, economiche, ambientali e mi rimetto in pace con la necessità di manifestare. Questo sembra essere un istinto comune al sempre crescente numero dei compagni di strada, e infatti nei prossimi mesi si susseguiranno alcune azioni per ribadire quanto sopra.

L’Italia, grazie all’eco mediatica suscitata da Milano città 30 km/h, ha scoperto che in realtà ad Olbia era adottata da anni, e che Bologna giusto lo scorso anno ha deliberato la stessa cosa in un atto di giunta (cioé: finanziato e cogente, quindi accadrà). E’ il punto si svolta secondo una serie di associazioni e realtà, ovvero Fiab-Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta, Legambiente, Asvis, Kyoto Club, Vivinstrada, Salvaiciclisti, Fondazione Michele Scarponi, Amodo e Clean Cities Campaign, che per domenica 26 febbraio hanno indetto una manifestazione diffusa, cioè in diverse città italiane, che nel momento in cui scrivo sono arrivare a 17, tra cui Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Perugia, Napoli. E’ il via alla campagna, che si stima perenne, chiamata “Città 30 subito”, in luoghi simbolici scelti dalle realtà locali si formeranno delle strisce pedonale umane: in corrispondenza di attraversamenti pedonali verrà organizzato un pacifico passaggio umano di persone e biciclette per chiedere un cambio di passo nelle politiche della mobilità e informare le persone sui vantaggi del modello città 30. Nella mia città, Roma, abbiamo scelto via Tripolitania: lì fu travolto e ucciso il 29 dicembre scorso Said, il fioraio di zona; luoghi simili -le nostre città sono costellate di sangue umano sacrificato al moloch automobile, purtroppo la scelta è ampia- sono stati scelti nelle altre città. La manifestazione è accompagnata da un vademecum, messo a punto da Edoardo Galatola di Fiab e Andrea Colombo, ex assessore bolognese alla Mobilità e coautore del percorso che ha portato con una forte spinta dal basso a Bologna città 30, che illustra in dettaglio cosa è una città 30 km/h, con una corposa documentazione che naturalmente i contrari al cambiamento non leggeranno mai. Possiamo serenamente includere tra questi il direttore di Quattroruote, che ha recentemente squillato le trombe dell’allarme perché a suo dire contro l’automobile è stata dichiarata una guerra di religione.

Ora che avete smesso di ridere e rimesso nell’armadio i paramenti di Goffredo di Buglione vi interesserà sapere che per il 3 giugno prossimo si sta preparando la terza grande manifestazione nazionale a Roma, per ora promossa in semiclandestinità ma da un cospicuo numero di attori già organizzatori della manifestazione del 28 aprile 2012 che diede il via al movimento Salvaiciclisti. “ Il nostro obiettivo è che il 3 giugno 2023 centomila ciclisti portino un dossier di interventi sul tavolo del Ministro dei Trasporti per chiedere interventi urgenti”, fa sapere il gruppo promotore alla testata Bikeitalia.it. La data non è scelta a caso: oltre a essere sabato, quindi comodo per chi deve raggiungere Roma, è anche il World Bicycle Day, la giornata della bicicletta indetta dall’Onu dal 2018.

Insomma: da questa domenica inizia una spinta continua verso la città riconsegnata alle persone. Se ce l’hanno fatta in Olanda 50 anni fa ce la possiamo fare anche noi, e non tra 50 anni.