Come aumentare le morti in strada: lo spiega bene il Codice della Strage

Per questa primavera assisteremo a un aumento di morti e feriti sulle strade italiane. C’è un’accelerazione in corso sulla riforma del Codice della Strada firmato Salvini: il testo è stato discusso in aula alla Camera, a breve passerà al Senato e potrebbe essere approvato rapidamente. A meno di uno scatto di dignità delle forze politiche che impedisca questa controrivoluzione, che di fatto dà mano libera agli automobilisti e lega invece quelle dei comuni, a cui viene sottratta molta capacità decisionale su Ztl, ciclabili, interventi di traffic calming come le Zone 30. Per una miriade di motivi, che in seguito sintetizzerò, un gruppo eterogeneo di associazioni che gravitano intorno al risanamento stradale, e che per la prima volta hanno promosso presidi e manifestazioni in 40 città italiane dal 9 al 12 marzo, ha rinominato il tomo salviniano “Codice della Strage”. Sono così tante le misure insensate, o forse sensate per chi malsopporta di pedoni e persone in bici per strada visti come ostacoli alla propria esistenza, che risulta difficile elencarle tutte. Lo ha fatto Andrea Colombo, esperto di mobilità e uno dei principali promotori di Bologna 30: se ne parla altrove qui.

L’impianto della riforma ruota intorno a un concetto: avocazione al governo centrale delle modifiche allo status quo e poderose strizzate d’occhio ai comportamenti più pericolosi. Per esempio, nei casi in cui oggi l’automobilista ha l’obbligo di dare precedenza al ciclista, tale obbligo viene trasformato in un fumoso, e insanzionabile, “prestare attenzione”: l’effetto che ne conseguirà sarà chiaramente, a scontro avvenuto, la più classica delle scuse in strada, “si è buttato all’improvviso”. Decine di studi, basati sulla fisica, rilevano che all’aumentare della velocità si restringe il campo visivo: madre di ogni “non l’ho visto” è la velocità insensata in città. Che addirittura potrebbe vedere anche un innalzamento dei limiti: anche questo prospettato nel Codice della Strage.


In sintesi la strategia è quella di non toccare e semmai peggiorare la prevenzione di comportamenti sciagurati, causa del 90% degli scontri stradali (“incidente” è una casualità, quando diventa certezza è una statistica), e colpire repressivamente e a posteriori comportamenti “devianti” come stati alterati dovuti a droghe e/o alcol, che sono il 10% delle cause di morti e feriti. Che nel frattempo si sono verificati e non è possibile riavvolgere il nastro del danno. Il risultato è meno regole, limitazioni, controlli, sanzioni e più libertà di circolare nelle città per i veicoli più veloci e pesanti (quelli a motore) e regole più restrittive e meno spazio e sicurezza per i veicoli più leggeri e gli utenti più vulnerabili.

Una persona perbene si domanda: ma che senso ha? L’unica risposta che riesco a darmi è la ricerca di consenso in fuga stimolando la pancia della società, in Italia largamente motorizzata e ampiamente asociale in strada: alla ricerca di vie, tutte azzardate, per risalire il declino elettorale evidente. Non sono un fine stratega come l’attuale ministro dei Trasporti e c’è anche la possibilità che questa assurda, criminogena manovra sia moneta di scambio per altro che non riesco a immaginare. Ma la strada è l’unico spazio pubblico vero che sia rimasto, ci passa la società intera senza alcuna eccezione. Come sia possibile che la sua gestione venga lasciata in mano ai calcoli pro domo propria di un leader in declino è la domanda che dovremmo porci.

Ai turisti consiglierei di evitare per un po’ l’Italia.

Il treno dei desideri in Italia all’incontrario va

La prima volta in vita mia in cui ho visto salire delle bici su un treno fu in Danimarca negli anni ’80, durante un Interrail. Erano tempi in cui esisteva ancora il telegrafo, mappe e biglietti erano di carta, ogni paese aveva la sua moneta, il telefono portatile era solo nei romanzi di fantascienza. In quella stessa occasione vidi il primo giubbotto di pile, addosso a un finlandese che stava andando come me in Norvegia a passeggiare, glielo invidiai perché era caldissimo e leggerissimo mentre io ero addobbato con strati di lana (umida).
Questo il contesto in cui vidi per la prima volta l’accoppiata bici più treno. Moltissimi anni dopo anche in Italia arrivò il trasporto bici sui regionali ma sempre all’insegna della sfiducia tra vettore e utente, come classico in Italia, con spazi limitati e ingressi difficili. Qualche anno fa l’ammissione delle bici pieghevoli sui treni ad alta velocità, e infine la novità più apprezzabile degli ultimi anni, e che io uso ormai ogni anno per andare a casa mia in Sicilia: spazio apposito per bici intere su alcuni vagoni di alcuni Intercity. Lunga percorrenza in autonomia: per me un sogno avverato.

Ma c’è sempre tempo per peggiorare le cose nel nostro dannato paese, soprattutto se aneli a una libertà di spostamento che non sia quella dettata dalle case automobilistiche. Qualche settimana fa chi usa l’intermodalità vera (quella finta è il parcheggio dedicato in stazione, dove devi lasciare il mezzo) è stato sorpreso da un annuncio ufficiale di Trenitalia: dal primo marzo le pieghevoli, diceva, devono essere messe in un’apposita borsa pena una multa di 50€ e la discesa nella prima stazione di fermata. Immediato parapiglia tra noi utenti, con tanto di petizione, catene social e quant’altro. Il sito Bikeitalia ha informato tutti da subito e ha seguito la cosa nei dettagli, potete andare a cercare lì i vari passi della vicenda.
Vicenda che si interrompe bruscamente alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo regolamento: Trenitalia, la settimana scorsa, comunica che le novità sono “congelate”.
Cos’ era successo? Che, presi dal panico dei primi momenti, non ci siamo resi conto che le novità rigruardassero anche le valigie: insomma, il bagaglio normale, non quello “speciale” come bici o monopattini. Due colli a testa, di una certa misura e non oltre, altrimenti la stessa sanzione di cui sopra.
E questo ha salvato noi biciclettari: perché ci si sono messe di mezzo praticamente tutte le associazioni dei consumatori, fino ad arrivare a un’interrogazione parlamentare di Avs alla Camera.

Da questa storia traggo due conclusioni: in qualche maniera la bici si salva ma solo per fortuna, perché le associazioni delle due ruote sono infinitamente meno ascoltate di quelle dei consumatori; e che possiamo aspettarci i treni all’incontrario, come in “Azzurro”, in ogni momento. Eppure sarebbe così facile copiare dai paesi che praticano l’intermodalità da mezzo secolo.

No al Codice della Strage firmato Salvini

Si può lasciare un capitolo fondamentale della vita collettiva come lo mobilità delle persone in mano a un leader politico in evidente parabola discendente e alla scomposta ricerca di nuova luce dei riflettori per provare a risalire la sua china? In democrazia, ma anche nell’esperienza più animalesca e tribale, la risposta è no. Deve essere no. Eppure è ciò che sta accadendo, una volta di più, nell’attuale distopia italiana di cui, malgrado la riscossa elettorale sarda, non si riesce a intravedere una fine a breve. Nel frattempo il leghista alla guida del ministero dei Trasporti si agita come un forsennato blandendo l’anima più indisciplinata della società, che vuole mani libere e piede sull’acceleratore senza che nessuno possa fiatare sulla sua personalissima percezione dello spazio pubblico chiamato strada: è in arrivo una nuova versione del Codice della Strada firmato Salvini, immediatamente rinominato Codice della Strage da un folto gruppo di associazioni che si battono per portare un po’ di Europa moderna anche qui da noi sotto le Alpi.
Metto di seguito in fila le “novità”, in realtà un ritorno al vecchio così palese che sembra di vedere l’avvocato Agnelli alla guida dimostrativa della 500 in una foto in bianco e nero, tanto che un sottotitolo al nuovo Codice potrebbe essere “per strada continuate a fare come vi pare”.
Niente autovelox nelle strade a 50 km/h, un invito a correre. Nuova sospensione breve della patente solo con meno di 20 punti e solo se si va ad almeno 77 km/h in città. Delega al Governo per innalzare i limiti massimi di velocità. Ztl più difficili subordinandole alle esigenze della mobilità automobilistica e dell’economia, rendendo più attaccabili le delibere e ordinanze che limitano il traffico. Nuovo decreto del ministero che deciderà al posto dei Comuni, restringendo condizioni e modalità per poter creare Ztl e aree pedonali. Eliminata la possibilità di controllare e sanzionare con telecamere alcune infrazioni. Nuova possibilità di violare Ztl, aree pedonali e strade a transito vietato anche più volte ricevendo una sola multa al giorno anziché una per ogni infrazione. Della guerra alle bici neanche ne parlo, gli attacchi sono così tanti che il conto diventa difficile. Ne cito uno particolarmente criminogeno: obbligo per gli automobilisti di dare la precedenza ai ciclisti sostituito da un generico e inapplicabile obbligo di “prestare attenzione”.

In sostanza è tutto un ammiccare con sottotesti (appunto il fate come vi pare) al singolo automobilista re della strada, moltiplicato i quasi 40 milioni di conducenti che gravano sul territorio.

Si inaugura dunque l’era della mattanza in strada, in perfetto controcanto alla direzione mondiale.

Vorrei fare un parallelo con un altro capitolo tragico dell’Italia contemporanea, quella delle crescenti morti sul lavoro. Dalla recente strage di Firenze è stato portato all’evidenza pubblica che il ricorso ai subappalti ha aumentato le morti sul lavoro. Indovinate chi è che ha dato mano libera ai subappalti nella riforma del Codice degli appalti. Esatto, lui.

Città 30, contro Salvini la carica dei 235

La crociata di Matteo Salvini alle città 30 km/h dopo l’avvio della fase finale a Bologna si sta rivelando un assist formidabile alla misura di riassetto urbanistico. Solo Sanremo, al momento e per una settimana, è in grado di tenere il primo posto in classifica nelle chiacchiere che sento in giro: basta solo accennare al provvedimento e riecco Guelfi e Ghibellini in smagliante forma sbucare dalla vernice di civiltà che noi italiani ci siamo pennellati addosso. Non solo delle città 30 si parla qui al piano terra della società, l’effetto più importante, ma la carica della conservazione del predominio automobilistico ha portato allo scoperto persino architetti, urbanisti e esperti vari della gestione degli spazi pubblici, sia docenti sia amministratori. Il primo febbraio è stata pubblicata una lettera aperta ma diretta al ministro dei Trasporti in cui ben 130 di costoro spiegano perché le città 30 devono essere considerato un valore da perseguire e un destino ineludibile se vogliamo tornare alla città delle persone dopo la ultradecennale sbornia delle città per le automobili. Tra i firmatari ci sono due star del settore come Stefano Boeri e Matteo Ponti, insieme ai due “monaci guerrieri” delle città 30 Matteo Dondé e Alfredo Drufuca, quest’ultimo autore dello studio Polinomia che dimostra i benefici effetti di Bologna 30. Dopo la pubblicazione della lettera, che evidentemente non aveva raggiunto tutti coloro che potevano firmarla, c’è stata un’ulteriore pioggia di adesioni e nel momento in cui scrivo si superano le 235 firme. Tra queste mi colpisce quella di Anna Donati, che sigla come responsabile mobilità del Kyoto Club ma che al momento è presidente e ad di Roma servizi per la Mobilità, il braccio operativo dell’omonimo assessorato romano: la qual cosa mi fa ben sperare anche per la mia città.

La polarizzazione politica avviata da Salvini sta dando i suoi effetti, anche nei comuni amministrati dalla destra persino leghista: fioccano le cronache di primi cittadini che dicono “perché no?”.

A Bologna un altro effetto collaterale della cosiddetta rivoluzione 30 è l’aumento, conteggiato dai totem della tangenziale delle biciclette, di passaggi a due ruote a pedali. Una conseguenza dell’ormai poco usato senso logico: se devo andare al massimo a 30 tanto vale che lasci la macchina a casa e mi sposti in bici, che fa intorno ai 20 km/h solo aumentando lievemente la spinta della camminata. L’aumento dei passaggi in bici data dal 16 gennaio, giorno dell’effettività del provvedimento bolognese.

Un effetto straniante è infine l’avvio di cortei in auto e moto (e dicono anche bici, ma ci saranno incappate in mezzo) a passo d’uomo, che ricordo è di 5 km/h: ogni realtà contraria alla misura si sta organizzarla per renderlo un happening costante in città. Il provvedimento di Lepore, nel frattempo autonominatosi Asterix nella sua lotta ai romani-Salvini, viene definito “da Corea del Nord”.

Mi sa che questi viaggiano poco in Europa.

Dalla parte giusta della storia: Bologna 30

“I centri si svuoteranno… Ostaggio di immigrati…” Ho trovato questo stralunato commento, simile a tanti altri ma questo veniva dopo una specie di ragionamento su Bologna a 30 km/h, sotto il post Facebook di un amico che dirige una rivista di biciclette. I puntini di sospensione ammiccanti sono originali, non miei. L’aspetto interessante di questa opinione sbrindellata è che non viene da qualche analfabeta cognitivo ma da una persona che nella sua bio social elenca una serie di testate giornalistiche a cui collabora, dunque il suo problema non è nella scarsa strutturazione di pensieri e parole. Tuttavia riesce a tirare fuori perle di questo tipo.
Probabilmente la “rivoluzione bolognese” ha colpito duro nell’immaginario collettivo. Per la prima volta in un paese costruito intorno alla divinità automobile, unica divinità personale che ciascuno può toccare, l’idolo è stato buttato giù dal suo piedistallo in una città capoluogo di regione e neanche di quelle piccine o meno note. Il nuovo limite generalizzato ti dice in sostanza la semplice, direi banale, verità: la velocità uccide. La priorità assoluta non è il tuo personale comportamento allargato fino allo sconsiderato ma salvare vite in un contesto urbano che da decenni vede il mezzo pesante privato aver occupato ogni spazio e ogni pensiero, mettendosi al centro del modo di spostarsi nelle nostre tane di bipedi chiamate città.

In sostanza l’esperienza bolognese sta portando all’evidenza di ciascuno ciò che chi ha già cambiato modalità di spostamento vive ogni giorno: la società italiana si comporta collettivamente come un tossicodipendente. In questo caso la dipendenza è da automobile e il pusher è lo stesso Stato, che con poca lungimiranza e in nome probabilmente del lavoro e della raccolta fiscale -ometto le convenienze personali e partitiche- ha puntato tutto sull’automobile come mezzo privilegiato di spostamento fuori casa. Puoi sempre provare a portargli via la “roba” per salvargli la pelle ma quello diventa aggressivo e dunque aggredisce.

Meccanismo che Salvini maneggia perfettamente, ed eccoci a oggi: con solerzia i suoi uffici, che normalmente ci mettono anni o anche tempi infiniti tendenti al mai, hanno calibrato la richiesta direttiva che intralcia in tutta Italia anche la sola possibilità di mettere mano al disastro fatto in decenni. Pochi giorni di lavoro per esercitare una perfidia sottile: i 30 nei dintorni di parchi e scuole, dice la vulgata giornalistica. Il sottotesto è: si può rallentare nei pressi di luoghi ludici o frequentati da minori, però il resto del mondo è di noi adulti che abbiamo da fare e non possiamo rallentare la nostra operosa attività. Perfetto, da applausi. Ma a Salvini non conviene citofonare ancora a Bologna, di solito gli porta male.

E’ totalmente inutile con questo tipo di gente svolgere ragionamenti. Nei giorni scorsi è circolato un tweet di Milena Gabanelli, estremamente rilanciato: “Abito a Bologna e non c’è nessun caos. Si va a 30 km/h a Londra, Bruxelles, Helsinki, Barcellona, Zurigo, Madrid, Graz…dove hanno pensato che la vita di un bambino, un pedone, un ciclista valgono più dei 5 minuti persi a rallentare”.

Tra i protagonisti di questa rivoluzione bolognese c’è Simona Larghetti, ora consigliera comunale di Coalizione Civica dopo un percorso di attivismo in seguito al suo incontro con il movimento Salvaiciclisti a fine 2012. Ho chiesto a lei la sua opinione, eccola.


“A Bologna, città in cui è nata la prima università del mondo, non abbiamo paura delle novità e con il diverso ci abbiamo fatto marketing territoriale per mille anni circa”, mi risponde. “Salvini, che usa il Ministero delle Infrastrutture un po’ come la sua sala giochi, ha dichiarato guerra al provvedimento bolognese, preannunciando pazzesche direttive. Come si intestò le morti in mare, ora vuole intestarsi i morti in strada, cavalcando come sempre la reazione, la paura, il diverso. Dal 2013 mi batto per la città 30, perché non ci credevo nemmeno io, ma poi ho fatto la prova: 11 anni fa ho guidato rispettando questo limite, che mi sembrava assurdo, e mi sono accorta che in città, causa semafori, traffico e code inevitabili, i tempi di percorrenza sono gli stessi se consideriamo tragitti di pochi chilometri. Sui 30 km/h in città ho solo una cosa da dire: provate”. Lo ha fatto “dopo aver conosciuto Anna, un’attivista dell’Associazione Vittime della Strada che in un incidente stradale ha perso un pezzo di gamba e si è trovata un marito gravemente cerebroleso”. Ma cosa vuoi che importi a chi ha fretta e non sopporta limitazioni, come i bamboccioni al volante.

“Sempre e per sempre dalla tua parte mi troverai”: l’autodifesa italiana di base

You’ll never walk alone è l’inno dei tifosi del Liverpool, e scusate se cito qualcosa che attiene all’animalità del tifo ma spero di farmi capire in seguito, abbiate pazienza qualche secondo.
Nel corso del momento di pausa chiamato feste di Natale è saltata fuori una notizia un po’ strana da Milano: la magistratura, in seguito alle troppe morti di persone in bici schiacciate da camion o altri mezzi pesanti presenti in strada, sta indagando.
Su cosa? Indaga sulla legittimità di corsie preferenziali dedicate alle biciclette. In sostanza il tema dell’indagine è se sia legittimo che esistano corsie dedicate allo scorrimento delle biciclette. Non su chi schiaccia chi.

Il tema è importante perché in caso di risposta sfavorevole alle corsie si troncherebbe una pratica adottata in ogni paese transalpino da anni, importata qui anche grazie alle spinte di noi attivisti (ormai da tempo, penso a Roma nel novembre 2014, nel tunnel tra Esquilino e S.Lorenzo la prima azione in assoluto di corsia home made in Italia) e poi adottata per legge nel corso della pandemia, quando sembrava che tutto dovesse cambiare. Tentativo ora sotto indagine della magistratura milanese, indagine immagino replicabile in ogni parte d’Italia che l’abbia adottata, e sfortunatamente ci sono pochi esempi.
Citavo l’inno dei tifosi del Liverpool ma vorrei rinforzarlo con i versi di una canzone di De Gregori: “sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Gli italiani, ogni italiano tranne la minoranza che ha già cambiato vita, fanno testuggine. L’intensità e la pervasività della cultura autocentrica occupa la mente di chiunque in Italia, anche delle eccellenze come i cervelli lucidissimi dei magistrati. Ogni tentativo di scalzare la dipendenza dall’uso dell’autovettura personale (ricordo: in media portano 1,2 persone a veicolo, da sempre) viene rigettato dalla sommatoria delle abitudini personali di quasi chiunque in ogni angolo dello Stivale.

Ho chiamato Matteo Dondé, urbanista teorico e pratico delle città 30, anche amico personale. Mi ha mandato un audio eccessivamente lungo che provo sia a riassumere sia soprattutto a edulcorare. “Da sempre c’è l’idea che la strada sia dell’automobile per cui non bisogna dargli fastidio, non bisogna mettere altri elementi, e io credo che questa la dica decisamente lunga: è il motivo per cui l’incidentalità urbana in Italia continua a crescere il triplo rispetto al resto d’Europa: qui continuiamo a morire. Non è una questione di corsia ciclabile: oggi è la corsia ciclabile, domani sarà qualcosa altro. Il problema è che culturalmente abbiamo ancora in mente il linguaggio dell’automobile. Non siamo riusciti a crescere sotto questo aspetto”. Matteo cita anche i pompieri di Parigi: “hanno ridotto i tempi di intervento grazie proprio alla ciclabilità perché si è ridotto il traffico e allora loro riescono a muoversi più velocemente”.
Con questo vi saluto in attesa di reazione. Altro che buon anno.

La cargobike con la lotta intorno

A ogni giro del pianeta intorno al sole torna il periodo natalizio, con il suo stanco portato di acquisti per i regali: sono felici solo i bimbi, innocenti e felici come solo i grandi saggi sanno essere fino alla fine, che scartano e scartano sotto l’albero. Noi adulti siamo bombardati da pubblicità che indicano dove e come buttare soldi in cambio di oggetti, a volte con suggerimenti paradossali: l’altro giorno sentivo in radio il consiglio di regalarsi per Natale una cucina nuova. Una cosetta da niente. Se i miei nonni sentissero una cosa del genere non riuscirebbero a capire da dove nasca una simile follia.

Quest’anno però c’è un consiglio che mi aggredisce improvvisamente alle spalle, materializzando uno dei miei sogni più irrealizzabili, e nasce paradossalmente in questo paese spalle a terra come ha relazionato il Censis nel suo ultimo rapporto. Attenzione: non è una bella storia ma potrebbe diventarlo: dipende da noi e dagli operai di una fabbrica.
Si tratta della Gkn di Campi Bisenzio, Firenze, ora sotto la mannaia del licenziamento collettivo. Il termine ultimo per sapere quale sarà il loro destino è questo 31 dicembre. Gkn Automotive è una multinazionale che produce pezzi per automobili, in Inghilterra hanno già licenziato e adesso tocca all’Italia. Gli operai si sono uniti nella cooperativa Insorgiamo e da tempo lottano contro il solito maledetto meccanismo della delocalizzazione tanto caro alla finanza in bulimica ricerca di sempre maggiori profitti. A luglio scorso è stata costituita la cooperativa Gff, con 14 soci tra lavoratori e sovventori, tra cui Insorgiamo, che sta portando avanti un piano di reindustrializzazione dal basso.

Che voglio fare gli operai? Una cargobike. Anzi l’hanno già fatta, in vari prototipi. Dalla produzione di aggeggi per la costruzione del mezzo meno efficiente della storia umana a quella del mezzo in assoluto più efficiente. A chi sia venuta in mente questa genialata non lo so ma come dicevo sopra incarna uno dei miei sogni.

Trovate ogni particolare sul sito del collettivo, insorgiamo.org. Nella presentazione della cargo si legge che “fa bene all’ambiente, fa bene alla lotta. Puoi avere i nostri prototipi con una donazione liberale: tu hai una cargo-bike, sostieni la lotta, ci dai un feedback sul suo funzionamento e porti a giro un “volantino” a favore della lotta scritto con la saldatrice. O puoi preordinare il tipo di cargo-bike che abbiamo prototipato. La reindustrializzazione di una fabbrica non è solo un fatto tecnico. È anche un problema tecnico.Ma oggi la reindustrializzazione di Gkn è un fatto sociale, sindacale, politico. E’ un esempio che questo sistema non si può permettere. Per questo questa cargobike si fa strada solo con rapporto di forza diversi e fa strada a rapporti di forza diversi. Dimostrazione fisica, materiale che si può”.

Rilancio qui questa magnifica idea e invito chiunque a sovvenzionare “la cargobike con la lotta intorno”. E magari a comprane una: altro che cucine usa e getta.

Aumentano le aggressioni ai ciclisti romani

Negli ultimi tempi osservo con preoccupazione un aumento di atti violenti e comportamenti aggressivi nei confronti di chi si sposta in bici nella mia città, Roma. Anche nella mia esperienza, anche se finora non ho subito aggressioni fisiche ma solo accenni di spostamento di traiettoria di veicoli a motore e in un caso uno sputo da parte di un ragazzo in scooter elettrico, che fortunatamente non ha centrato né me né la bici. Dalla mia bolla social vedo crescere a macchia di leopardo atti simili in altri luoghi d’Italia. A Roma recentemente si sono verificate aggressioni a Ponte Mammolo (Tiburtina), Appia Nuova e Nomentana. Il più grave di tutti, per la dinamica, sulla Tuscolana lo scorso venerdì di Critical Mass: una donna in ospedale con prognosi di 30 giorni, un ragazzo con un dente rotto per un pugno e un altro con clavicola fratturata dopo l’aggressione che lo ha fatto cadere male sulla sua bici. Questo è un episodio su cui vorrei focalizzare l’attenzione anche perché ho visto i video che mi ha mostrato chi c’era e perché la donna investita è stata attivamente cercata dagli occupanti di una Smart bianca a quattro posti.

Le aggressioni in realtà sono state due, la prima nella parte semicentrale della Tuscolana con una rissa scatenata dall’occupazione della carreggiata da parte della Cm, cosa non mandata giù da un quartetto di ragazzi giovanissimi, uno di questi vestito alla trapper, ai miei occhi e a detta di tutti i presente evidentemente appartenenti all’estrema destra, che in quella zona ha vari covi -e palestre-. Gente insomma che ai miei tempi si sarebbe definita “picchiatori fascisti”, con parecchi sintomi di sovreccitazione da sostanze: le testimonianze concordano e anch’io l’ho notato pur avendo visto solo video.

Dopo la rissa il peggio è arrivato dopo, un centinaio di metri avanti, quando i tizi si sono ripresentati a bordo della macchina dietro la coda della Cm. Dalle testimonianze degli ultimi due che stavano dietro i tizi hanno scelto la loro vittima, la terz’ultima, appunto una donna: “Prendi quella, prendi quella”, hanno detto, sbattendola a terra colpendola sulla ruota posteriore. Sono scappati ma sono stati tanto scemi da tornare a piedi in seguito, dopo che l’ambulanza era andata via, armati di tirapugni e coltello. Ma c’era la polizia, che li ha bloccati e identificati. Ignoro se siano stati denunciati dopo l’identificazione ma tutti i testimoni concordano sul mancato arresto o fermo in caserma, cosa di cui non mi capacito.

L’aria per noi si è molto appesantita. Un crescente nervosismo nel traffico e a mio parere l’individuazione del ciclista urbano come nuovo nemico, cosa di gran moda oggi che la destra è al governo, sono alcune delle cause di ciò. Ma probabilmente va approfondita la crescente fragilità degli individui, portati a scoppiare per un nonnulla per le pressioni che i contemporanei non sono in grado di sostenere. E forse chi mostra libertà di movimento è da abbattere: un alieno, per gli alienati.

Non andate a Rotterdam

Mancavo dall’Olanda da più di venti anni, quando ci passai oltre un mese per mettere a posto e poi far viaggiare fino al Mediterraneo la barca in acciaio che ancora ci accompagna nelle nostre navigazioni. Gli olandesi hanno una storia di eccellenza nella carpenteria nautica in metallo: le grandi barche a vela da carico che portavano merci su e giù per gli infiniti canali (un’infrastruttura, tra le tante, che in Italia non esiste e che c’era solo lungo il Po, ma lasciata andare in favore dell’asfalto) sono ancora naviganti, oltre un secolo dopo la loro costruzione.

Dall’inizio della mia avventura con e per la bicicletta non ho voluto più andare in Olanda, e se per questo neanche in Danimarca, sapendo perfettamente che ne sarei tornato amareggiato avendo toccato con mano l’abisso che separa quei paesi dal nostro, intensamente motorizzato e ancora convinto che la bicicletta sia un utensile sportivo al pari di una racchetta o di un paio di sci. E invece l’esistenza mi consegna una figlia che decide di andare in Erasmus a Rotterdam, lì dove Erasmo è nato. Quindi zitto e buono, con il mio carico di rassegnazione e vettovaglie su richiesta, mi imbarco all’inizio di novembre per andarla a trovare.

L’impatto davanti alla stazione centrale è abbastanza scioccante: freddo a parte, dal cielo cade una cortina d’acqua consistente, condizione meteo locale che la studentessa assicura abituale e che ricordavo anch’io, essendo il cantiere della barca a una ventina di km da lì. Lo shock mi deriva dalla vista immediata di parecchie decine di persone che vedo pedalare sotto l’acqua ma in jeans o gonna e calze. Cerco di intravedere sui loro volti smorfie di disappunto o comunque sentimenti negativi rivolti alla sfiga di pedalare in quelle condizioni e non ne intravedo alcuno. Come difesa dall’acqua solo giubbotti impermeabili e in qualche caso neanche quelli. Di completi antipioggia ne vedo sì e no un 6-7%. Una cosa stranissima, per me che quando butta a pioggia non esco senza avere nelle borse il completo antipioggia e traspirante di buona qualità.

Mi viene da pensare a quella formula stantìa che i benpensanti usano lanciare facendo spallucce a noi attivisti, “ma Roma non è mica Amsterdam”, a ogni tentativo di mostrare la necessità che il nostro paese sviluppi la ciclabilità come nel resto d’Europa, con l’Olanda come capofila. E penso anche al forte vento di quelle lande, che quando arriva dall’Atlantico con il suo carico di freddo e pioggia, trasforma ogni pianura in uno Stelvio.

Le bici che vedo sono esteticamente inaccettabili nella massima parte dei casi. L’incuria nella loro manutenzione mi risalta evidente, in un caso ho fatto la fila (la fila! Mi sembrava di sognare) dietro una ragazza con il filo del freno anteriore penzoloni e pericolosamente oscillante verso i raggi della ruota. In generale sono mezzi pesanti e maltenuti, ma quelli e quelle pedalano ugualmente per andare dove devono.

Qui invece si scannano per auto elettrica sì o no. Un paese di fessi.

Vivere in città-trappola non è un destino ineludibile

Piano piano l’argomento comincia a -è il caso di dirlo- farsi strada nel dibattito collettivo: ma in che città stiamo vivendo? Come siamo arrivati a rendere invivibili le nostre tane? In uno degli anni peggiori che si ricordino per mortalità sulle strade, e per le modalità con cui si giunge a una fine di vita anticipata a volte ai limiti della follia (basti pensare alle persone in bici o a piedi uccise da persone alla guida di mezzi pesanti, il caso Milano è eclatante), ci sono sempre più osservatori che -anche se lentamente- stanno inquadrando meglio il problema, a volte usando parole e concetti prese di peso dal mondo dell’attivismo, tradizionalmente indicato come una piccola ridotta di inguaribili sognatori e ingenui fricchettoni. E’ il caso, recente, dell’intervento sulle pagine romane del Corriere della Sera dell’ex pretore antismog come veniva definito negli anni ’90 Gianfranco Amendola, ex magistrato ed ex europarlamentare Verde.

In un intervento dal titolo “Capitale della lamiera”, appunto l’espressione che da anni circola negli ambienti della Critical Mass, Amendola punta il dito non solo sul fiume di sangue versato ma soprattutto, e questa è una novità da salutare come un raro momento di lucidità su un quotidiano, in chiave di occupazione spaziale. “Roma non è più una città per l’uomo -scrive Amendola nel suo editoriale- ma una città per le auto, che presto diventeranno più numerose degli umani”. Benvenuto.

Esiste un curioso esercizio comparativo inaugurato dal blog Turismo senza Auto e poi ripreso dall’altro blog Ambiente e non solo curato da uno dei membri del Kyoto club Marco Talluri: si mettono a confronto l’occupazione spaziale di umani e automobili in diverse città, calcolando che in un metro quadro entrano due persone e un’auto privata ne occupa mediamente 12,5. TsA ha messo a confronto Roma, Milano e Bologna, Talluri è andato oltre e ha applicato il calcolo a 14 capoluoghi di provincia. Non esistono dati attendibili sullo spazio non occupato dagli edifici, e per brevità il calcolo è stato fatto sull’intera superficie comunale, parchi compresi. Risulta che a Roma, quasi 700 veicoli ogni mille viventi e una superficie di 1.287 kmq, lo spazio occupato dagli abitanti è di 1.385.113 mq, quello occupato dalle auto 21.677.018: i quasi tre milioni di romani occupano lo 0,11% dello spazio cittadino. Lo spazio occupato dalle auto è quasi due volte e mezzo dell’area urbana del Lido di Ostia, sottolinea invece Amendola, ricordando che la capitale è la città più congestionata d’Europa e la seconda città al mondo per tempo buttato nel traffico: 21 giornate lavorative all’anno. Secondo l’ex magistrato non ci si può limitare a interventi migliorativi, comunque necessari, dei singoli servizi “se poi continua a dettar legge la città dell’auto con il suo corollario di egoismi, di isolamento e di prepotenze”.

Nel frattempo la situazione in città è precipitata nel caos grazie a quei cantieri che citavo in un mio altro intervento (e avevo dimenticato il rifacimento di piazza dei Cinquecento di fronte alla stazione Termini). I presidi dei licei del centro sono arrivati a tollerare ritardi di 20 minuti perché i ragazzi, banalmente, non riescono ad arrivare in tempo in classe anche se si alzano prima. E questo in meno di una settimana dello strangolamento viario inaugurato sabato scorso a piazza Venezia. Piazza che determina il centro di Roma e che incredibilmente viene ancora percorsa dalla veicolarità privata, una situazione esclusivamente italiana. Personalmente continuo a passare, ho maggiori difficoltà persino in bici, e vado spesso ad ammirare, rapito, l’enorme fila su via del Teatro Marcello alle pendici del Campidoglio, fila che non avevo mai visto con questa consistenza e questa costanza.

Un’altra commentatrice romana, Chiara Valerio stavolta dalle pagine romane di Repubblica, si è lanciata in un’ardita composizione in cui chiama addirittura in causa la bellezza della scuola dell’obbligo, che ha allargato le menti di gente abbrutita da una vita di stenti prima che la scuola fosse obbligatoria per tutti, che a suo parere non è più così bella per il fatto che “il diritto di imparare non è più accompagnato dal dovere di aver imparato”. Tutto questo per accollare ai nuovi semafori installati per la gestione del traffico veicolare la causa del disastro in atto in questi giorni. Che l’abuso di automobile sia la fonte prima di ogni guaio cittadino non salta neanche in testa all’autrice. Eppure sarebbe così semplice: basterebbe realizzare che dalla città trappola si può uscire con le proprie scelte, il resto verrebbe di conseguenza.