La bicicletta è l’aspetto visibile del pacifismo

Nel mio laboratorio campeggia da anni, insieme alle altre immagini che ritengo significative per quel luogo concreto e magico, una foto tratta da una prima pagina de “il manifesto” di tantissimi anni fa. Un gruppo di ragazzini in bicicletta supera ridendo una colonna di carri armati britannici durante l’invasione dell’Iraq organizzata per levarsi Saddam Hussein di torno. Ho trovato allora, e continuo a trovarla ogni volta che entro nel posto dove costruisco le mie bici, che fosse l’immagine perfetta per illustrare, in buona sostanza, tutto ciò che vedo in una bici. 

Reagisco con un certo fastidio quando chi mi conosce appena scambia la mia fascinazione per il mezzo come una passione, un feticismo, al pari di quelli che definiscono “ciclista” chi pedala, mettendo costui o costei nell’angolo della definizione ludico sportiva.

C’è immensamente di più, nell’utilizzo della bici o meglio nella sua scelta come mezzo personale unico -o privilegiato, per chi ancora non ce la fa ad abbandonare del tutto i motori-: è essenzialmente una diserzione dal sistema economico dominante.

Non vi piace la parola diserzione? Io l’adoro e la pratico quotidianamente, e Caparezza in una sua canzone illustra bene il concetto. Diserzione a tutto tondo e non solo rifiuto delle guerre per il petrolio come recita un bel cartello giallo -anche quello nel laboratorio- escogitato dal frontman della Critical Mass di San Francisco, Chris Carlsson, che mi regalò anni fa passando da casa mia. Sì, ovviamente anche quello: ma rifiuto di ogni guerra, a cominciare da quella che il sistema economico dominante ha mosso da anni agli umani, con metodi così suadenti che non sembra una guerra ma anzi un approdo mitico, il paradiso dell’abbondanza, l’obiettivo massimo a cui aspirare e da perseguire, plaudenti tutti.

Così come le mani sono l’estensione visibile del cervello, così il mezzo bicicletta è l’estensione visibile del pacifismo, pratica intesa come rifiuto del conflitto armato in qualsiasi caso. Un uomo o una donna in bici sono l’immagine più innocua che possa dare di sé quel predatore primario che è l’essere umano. Chiunque di noi può praticare la ferocia, la ricerca è sapere che si può ma non farlo. Anch’io, come te, posso essere preda di emozioni negative forti: l’obiettivo è lavorarci sopra, capire che ti stai lasciando andare ed evitare di farlo.

Evito di muovermi su mezzi motorizzati e non solo per non sprecare idrocarburi -materiale nobilissimo che dovrebbe essere usato con cura e con accortezza, non buttato nelle camere a scoppio per muovere mezzi enormi che trasportano quasi niente. Lo faccio anche per non sprecare inutilmente spazio, per non buttare calore o fumi vari nel luogo comune che è la città o il pianeta; per uscire dalla spirale che compra e butta quando si rompe; per, in definitiva, non uccidere né persone se dovessi colpirle inavvertitamente né il mio circostante. Per riappropriarmi della mia libertà  di movimento.

Immagino che sia con questo spirito, o simile, che Emergency e Fiab organizzino la prima edizione di “Pedaliamo per la pace” durante luglio: da Milano a Brindisi a tappe e turni per percorrere la distanza tra Roma e Kiev. Atto simbolico e, nella mia sensibilità, omeopatico. Ma significativo: quale altro mezzo può simboleggiare la pace?

L’obiettivo dei giovani è muoversi, non la patente

Come si fa a parlare di “emergenza educativa” se la percentuale di nuovi maggiorenni che provano a prendere la patente si è dimezzata rispetto a 10 anni fa? Soprattutto, come si fa a mettere in relazione diretta la patente con l’esplosività gioiosa delle estati giovanili, e -ancora peggio- come si fa a tacciare i 18enni di oggi di non aver visto “accendersi dentro sé la fiammella che muove il fuoco della passione, della scoperta, del bisogno dell’altro, della costruzione del ‘noi’”?

Sono citazioni di uno sbalorditivo intervento del pur apprezzato scrittore e psicologo dell’età evolutiva Alberto Pellai, apparso sulla rivista Marie Claire (lo si trova online) e scovato dal sempre attento sito Bikeitalia. L’articolo, che si conclude con un invito ai genitori a spingere i figli verso la patente per salvarli dalla presunta apatia, gira tutto intorno al pensiero fondante della generazione dei boomer e di quella prima: passione da vivere in libertà equivale a libertà di movimento su mezzo a motore, e il pass per questa è la patente.

E’ stato il pensiero fisso dei boomer come me e Pellai (siamo nati nel picco di nascite, il 1964), verissimo. I numeri di oggi dicono altro: la percentuale di ragazzi che prende la patente a 18 anni è scesa al 46%, con punte minime a Milano (35%) e Torino (39%), mentre il numero di automobili intestate a giovani under 25 è calato del 33% tra il 2012 e il 2022, scendendo sotto le 600.000, anche se il parco auto è cresciuto dell’8%.

Seguendo il pensiero di Pellai noi adulti dovremmo dunque avere in casa degli zombie, e così non è ovviamente. Mi limito a fare l’esempio della famiglia di cui faccio parte. Due ragazze, una di 27 e una di 24 anni, che vivono pienamente la loro età, la loro avvenenza e le loro passioni -compreso le delusioni, il pacchetto completo insomma-. La prima ha preso la patente tre anni fa e la seconda sta per farlo. Entrambe, scherzando, hanno usato delle perifrasi per non dire che stavano andando a fare lezioni di guida: il loro modo di prendermi in giro visto la mia missione antiautomobile. Nessuna delle due ha la minima intenzione di avere un’auto né ha mai chiesto un motorino al passaggio dei 14 anni o dopo.

Tuttavia si muovono e vivono pienamente Per loro e per il loro giro prendere la patente -senza fretta- è tornato a essere ciò che dovrebbe: un certificato di abilitazione alla guida di mezzi motorizzati, non certo il passaporto verso la felicità e il gusto intenso della vita, che praticano comunque.

E’ viceversa desolante per me, pur capendo e venendo dalla (dis)cultura che Pellai assume come positiva e desiderabile, toccare per l’ennesima volta con mano come il peso immane della propaganda automotive abbia infettato le generazioni precedenti all’attuale fascia giovane, e di tutta Europa stando ai dati. Questa generazione ha cambiato radicalmente il modo di pensare rispetto alle due precedenti: va perseguito l’obiettivo della libertà di movimento, non il possesso di un mezzo a motore. E anzi se questo ti complica la vita in vari modi, da quello economico al fallimento della promessa di libertà (traffico immobile) non ha senso sbattersi per averlo.

In realtà la vera emergenza educativa paventata da Pellai nel suo intervento sta passando, ed è quella che hanno vissuto le generazioni precedenti: l’ipnosi automotive. L’invito “che quest’estate metta dentro i vostri figli un irrefrenabile desiderio di compiere 18 anni il più in fretta possibile per dotarsi di una patente” è già caduto nel vuoto. Grazie, ragazzi, siete migliori di noi.

Ora basta con le ciclabili giocattolo

“Descansate niño, che continuo io”, cantava Paolo Conte nella Verde Milonga. A parlare, secondo il poeta di Asti, era Atahualpa o qualche altro dio, volendo dire che quando il gioco è serio arrivano gli adulti e i ragazzini possono togliersi di torno e tornare a giocare.

Mi viene in mente -e comincio a canticchiarla in modo ossessivo finché, stufo, non uso Tinseltown Rebellion di Zappa, nello specifico Love of My Life, per levarmi il motivetto dalla testa- ogni volta che mi capita di vedere alcuni percorsi ciclabili nelle nostre città, per la massima parte dei casi ovviamente la mia.

Ricapitoliamo: negli ultimi vent’anni abbondanti si è sviluppata una sensibilità sociale verso la bicicletta come mezzo di trasporto; questo grazie soprattutto all’esperienza di base delle Critical Mass; anche il mondo dell’associazionismo si è modificato e dallo stato di aggregazioni per l’utilizzo di bici nel tempo libero ha cambiato parzialmente pelle rivolgendo l’attenzione alle tematiche dell’uso quotidiano, della sicurezza stradale e nei casi più sofisticati al ragionamento intorno all’utilizzo delle città e alle sue necessarie evoluzioni moderne.

Quanto sopra è una sintesi estrema della percezione del mezzo bici, e so per certo di aver saltato qualche passaggio che però allungherebbe troppo il brodo. Basti sapere che nella società è ormai abbastanza accreditato l’uso della bici non più come attrezzo sportivo ma come quel che è: utensile da trasporto personale.

Di questa evoluzione si sono accorti persino gli amministratori italiani. Ma ogni dannata volta che c’è da mettere mano alla pubblica via, come per incanto l’opera che viene progettata (sempre) e poi realizzata (a volte) è la Ciclabile Marginale: un percorso a volte in qualche remota area urbana, quasi sempre scollegato nelle sue varie tratte, segnaletica a singhiozzo che serve a non disturbare attraversamenti carrabili, zig zag e altre piacevolezze. Ma attenzione: la furbata di sindaci e giunte è spacciare queste ciclabili giocattolo come interventi sulla mobilità leggera in ossequio al verbo green: li fa diventare d’incanto moderni se non contemporanei.

E’ una truffa, colposa o dolosa a seconda dell’importo degli appalti. A volte sono davvero convinti che l’infrastruttura giocattolo sia una moderna carreggiata dedicata alle bici e che li ponga al livello delle migliori esperienze europee (cit.). La qual cosa è peggio, perché il delinquente ha le sue ragioni ma lo scemo no anche se è convinto di averle.

A Roma ci sono due recenti esempi di queste ciclabili giocattolo: un grande raccordo anulare delle biciclette, cicloturistico, e il prolungamento del percorso ludico che arriva nei pressi di S.Pietro. La prima ha visto un’inaugurazione in pompa magna di circa 450 metri (ma si sono dimenticati la rampa d’accesso), la seconda analoga inaugurazione e altre castronerie progettuali.

Perché canticchio “descansate niño”? Perché so che la manovra è questa: vi faccio la vostra pistarella ma per carità non mi chiedete di disturbare il traffico vero, le macchine, altrimenti mi fanno a pezzi. Però non ve lo posso dire. Anzi, visto che è ormai chiaro che anche a spararla grossa contro ogni evidenza me la cavo, non solo passo per moderno ma addirittura prendo pure gli applausi. Quindi levati, bimbo, che arriviamo noi adulti.

In Italia servono interventi sensati per arrivare a una serie ripartizione modale e a quella che ho sentito definire “uguaglianza territoriale”. Non i percorsi ludici fatti tanto per fare appalti. E poi rivenduti come l’ottava meraviglia, per di più.

In un mondo che ha paura della sobrietà splende la lezione di Mujica

La vita e la morte di José “Pepe” Mujica sono state prese poco sul serio, anzi molto sottogamba, dalla massima parte degli umani, appartenenti a una società costruita intorno allo spreco. E’ stato abbastanza avvilente vedere i tagli bassi dei quotidiani dedicati alla scomparsa, il 13 maggio, dell’ex presidente dell’Uruguay, con qualche lodevole eccezione come il manifesto e il Domani. Durante il suo incarico al vertice del paese era stato subito descritto come “il presidente povero”, accettabile sintesi giornalistica in un contesto che non riesce proprio a capire cosa, effettivamente, sia la sobrietà. Meno accettabile se si pensa che la povertà sia essenzialmente dolore e disagio continui in varie gradazioni, mentre la sobrietà porta al lato opposto dell’emozionalità e dell’appagamento esistenziale. Chi come noi in bici ha scelto quella strada ha ben presente la differenza: ci muoviamo e viviamo in una società -ostile- non costruita bensì allevata per trovare soddisfazione nel consumo, mentre la sobrietà ti riequilibra e si gode parecchio non con poco ma con il senso di ciò che si fa.

Suggerisco di pensare anche alla lezione di Mujica, che ha svolto l’intera sua vita ragionando sul senso di ogni cosa, e per un tratto ha svolto anche la funzione di presidente di un paese. Un altro foglio meritorio in occasione della sua morte è stato il fu Espresso, oggi rifugiatosi nell’online dopo essere stato di fatto strangolato dall’editore, che ha pubblicato stralci di un documentario in cui appariva anche Pepe, “Humans” del francese Yann Arthus-Bertrand, 2015. “Contadino per guadagnarmi da vivere nella prima parte della mia vita, in seguito mi sono dedicato alla lotta per cambiare la società. Adesso mi trovo in un’altra tappa, sono presidente. E domani, come qualsiasi altro uomo, sarò un cumulo di vermi e scomparirò”. In carcere per anni “ho avuto molto tempo per riflettere e ho scoperto questo: o siamo felici con poco, perché capiamo che la felicità è dentro di noi, oppure non otterremo niente. Ci siamo inventati una montagna di consumi superflui, bisogna ininterrottamente comprare, gettare, comprare, ma quello che stiamo sprecando è tempo della nostra vita. E l’unica cosa che non si può comprare è la vita”.

Contro un uomo che pensa e vive così qualsiasi potentato diventa inerme, e la cosa spaventa così tanto che l’unica contromisura possibile è buttarla in ridicolo: il presidente povero.

L’esempio: il suo paese è piccolo e non ha un aereo presidenziale. Invece di questo ha fatto acquistare un elicottero attrezzato per esigenze mediche, l’ha collocato al centro del paese per avere un pronto soccorso volante veloce in caso di emergenze. “Si può vivere con molta più sobrietà e allocare risorse per cose davvero importanti per la società. E questo è il vero senso della democrazia che si è perso nella politica”.

Ps: andate a votare per i referendum. Anche questo è cura della casa comune, come Mujica insegna.

Autostrada dei Fori Imperiali, 6 corsie davanti al Colosseo

Qualche giorno fa e dopo dodici anni di occupazione è stato smantellato quasi del tutto il cantiere della Metro C al Colosseo, e in particolare il tratto iniziale di via dei Fori Imperiali dall’anfiteatro fino alla basilica di Massenzio. Un pezzo di Roma che credo chiunque conosca, non fosse altro che attraverso le cartoline. Immaginate dunque la desolante sorpresa di veder apparire non più le vecchie quattro corsie ma adesso ben sei, costeggiate da marciapiedi di fatto equivalenti a quelli precedenti. Cercate le immagini sul web, sarete sbalorditi. Stiamo parlando dell’area archeologica più importante della romanità antica: immaginate lo sbigottimento di trovare tre più tre corsie separate dalle linee tratteggiate (neanche continue, che stanno a indicare il divieto di sorpasso nella teoria del codice della strada, in Italia mai praticata se non quando si deve passare l’esame della patente e si è tutti compunti lì a far finta di essere civili guidatori pur di non essere bocciati) proprio di fronte al monumento che identifica Roma e per estensione l’Italia.

Volendo ricorrere all’ironia si potrebbe dire: sì ok, ma in fin dei conti cos’è il Colosseo se non uno stadio, e cosa i Fori Imperiali se non un centro commerciale. Vecchiotti certo, magari qualcuno direbbe antichi, ma non si può certo fermare la vita per quattro pietre vecchie. Cose alla Trump che imita Salvini insomma.

Vale la pena di risottolinearlo: è stata disegnata un’autostrada esattamente di fronte al Colosseo, risultato di 12 anni di cantiere della metro il cui ingresso è incastrato sotto il belvedere di fronte all’anfiteatro. Nelle autostrade le corsie sono sei, normalmente. Ritrovarsela in area archeologica è un nonsenso di così elevata potenza evocativa che mi ritornano alla mente le parole di uno dei pochissimi sindaci di Roma all’altezza della storia della città, Giulio Carlo Argan, oltre 40 anni fa: “O i monumenti o le automobili”. Non solo altri tempi, tempi in cui si poteva disegnare il futuro, ma anche altre levature umane.

Lo ha ricordato in un suo intervento del 2017 Walter Tocci, ex assessore alla Mobilità di Rutelli, e autore tra l’altro dell’ultima vera novità romana in materia di trasporto pubblico, il tram che va dal centro alla collina di Monteverde: “Conservare lo stradone a dispetto della sua pratica inutilità significa farne un luogo di culto del traffico”. La citazione della parola culto non è un caso: lì vicino, a S. Francesca Romana, si celebra la benedizione degli automezzi, con tanto di gran sacerdote cattolico -vescovo o cardinale- e aspersorio. “È tempo di liberare l’area archeologica dalla mentalità antiurbana che ha prodotto il macchinismo novecentesco. È tempo di immaginare l’antico per il secolo che viene”, scriveva ancora Tocci, che peraltro ha firmato in tempi recenti un piano -sensato, moderno- per il riassetto dell’area di cui si sono perse le tracce.

La notizia dello smantellamento del cantiere si può trovare sui siti d’informazione locali. Stranamente non ne trovo traccia sul sito del comune, ma sarà una mia incapacità a cercare. La trovo invece sul sito di Roma Metropolitane: “Cambia l’assetto del cantiere della stazione Colosseo/Fori Imperiali della Linea C, avviato nella primavera del 2013 e condotto per fasi successive e modulari senza mai interrompere il traffico veicolare. È inoltre imminente la realizzazione dei nuovi semafori per gli attraversamenti pedonali in corrispondenza di piazza del Colosseo, anch’essi da installare per fasi in modo da non interrompere il traffico veicolare”.

E’ stato dunque ripristinato dopo un periodo di sospensione, breve visto la longevità dell’area, il logo di culto evocato con palese orrore da Tocci.

Nel 2023 un allarme sul ritorno delle auto nell’area fu lanciato dal sindaco defenestrato, Ignazio Marino. In un suo intervento si legge tra l’altro: “Quante volte avevo ascoltato parole severe da turisti di tutto il mondo in visita al Palatino e al Colosseo: ‘Ma come vi è venuto in mente di costruire un’autostrada a quattro corsie proprio fuori di qui?’”.

No, professore: adesso sono sei.

Ps di aggiornamento: pare che Tocci si sia infuriato e abbia preteso modifiche radicali nel verso giusto.

Nuovo codice della strada, un boomerang elettorale per Salvini?

A quanto pare il nostro fantasmagorico ministro dei trasporti ha pestato l’ennesima deiezione: la sua strombazzata riforma del Codice della strada, entrato in vigore il 14 dicembre, sta svelando effetti piuttosto lisergici nella sua applicazione da parte delle solerti forze di polizia stradale, che siano locali, civili o militari. A partire dalla mezzanotte le pattuglie hanno dato il meglio di sé, con qualche effetto comico, alcune scene discretamente grottesche e un generale zelo che ha sorpreso molti. Tra cui le decine di migliaia di fermati in Veneto, feudo di Zaia, a cui sono stati contestati livelli di alcol nel sangue al di sopra dei limiti fissati, e supermultati dalla nuova lettera del codice. Trattandosi del Veneto nessuno si è sorpreso ma l’effetto boomerang ha fatto parecchio sghignazzare nel resto delle regioni. Il vertice del comico si è raggiunto a Montegrotto Terme, dove i carabinieri locali ha fermato un’auto truccata da slitta di Babbo Natale, iniziativa di un gruppo di genitori di un asilo locale, portandola via salvo scoprire poi che aveva il permesso della polizia locale.

Epico resta anche lo scontro tra Vasco e Salvini sulla cannabis. Ne avevo già parlato qui ma fa molto piacere che il Blasco abbia scoperchiato l’argomento portandolo all’attenzione di chiunque. E facendo scavare un po’ più a fondo: si è per esempio scoperto che gli apparecchietti usati per rilevare l’assunzione di sostanze ne rileva solo 6 (polizia) o 5 (carabinieri), lasciando fuori per esempio psilocibina, amfetamine, metadone, fentanyl, Lsd e altre sostanze che nel nostro paese girano parecchio: se sei sobrio dopo giorni dall’ultima canna perdi la patente per tre anni, se sei fuori come una mongolfiera con le altre sostanze torni alla guida. Cominciano a circolare voci su possibili positività da farmaci da banco: si tratta quasi certamente di bufale ma dà il tono della confusione che lo sceriffo dei trasporti ha riversato su strada.

Tra i primi bersagli della novità i monopattinisti: non si contano più i fermati per assenza di casco, mentre le stesse associazioni delle autoscuole ammettono di non capire se per targa di intende una placca metallica o una punzonatura. Però sono le principali beneficiarie delle novità: per esempio i patentandi, dopo aver passato la teoria, non potranno più fare pratica con amici o parenti ma pagare le autoscuole, pena 450€ di multa a chi guida e altrettanti a chi accompagna.

Dalla provincia in cui abito, Roma, arrivano intanto altri segnali del grottesco spettacolo organizzato dall’ancora leader leghista: a quanto pare sono state mandate in strada un totale di oltre 19.000 pattuglie in 48 ore, nelle cui reti sono rimasti intrappolati solo 14 pesci per droga su oltre 5.000 contestazioni. Devo dire che, visto che questa Roma è una piazza formidabile di spaccio, il risultato è sotto le aspettative. Saranno le attrezzature che non funzionano.

Tutto ciò cala in un periodo in cui l’Istat ha diffuso i dati di vittime sulla strada nei primi 10 mesi del 2024: +8% in tutta Italia, e guarda caso -33% a Bologna. Abbattere il tentativo di Bologna di un limite generale di 30kmh era uno degli obiettivi di Salvini.

Si stanno cominciando ad agitare un po’ tutti -era ora- per le corbellerie del nostro. In precedenza ci eravamo mossi solo noi utenti leggeri, mettendo in campo forme creative di protesta e manifestazioni fisiche grazie all’immediata creazione di una rete attivista. Ma si sa, noi siamo i soliti fricchettoni che non hanno alcun peso specifico nell’Italia del fare, possiamo essere serenamente ignorati dai kapò al comando. Ma a quanto pare ora si stanno muovendo anche i ristoratori, in parte bacino elettorale delle destre, preoccupati di stappare meno bottiglie alle loro tavole.

A questo punto forse gli attivisti come me dovrebbero incrociare le braccia e godersi per un po’ lo spettacolo dei guai combinati dal Salvini nell’unico ambito collettivo che appartiene a chiunque, la strada. A questo punto solo i suoi possono fulminarlo.

“Ti tolgo la patente”, ecco il vero taglio delle accise

Nel nostro tentativo di arginare la forsennata riforma del Codice della strada rinominato dalla rete di associazioni coinvolte “Codice della strage” c’è sfuggito un aspetto della vicenda. Ci siamo concentrati sull’impianto che ci si rivolgeva contro non considerando altri aspetti per noi non urgenti: le norme dedicate a chi ancora si muove come se si fosse nell’Italia degli anni del secolo scorso.

Ci hanno invece pensato gli altri, quelli imbalsamati nel modello autocentrico, e hanno portato in evidenza parecchie cose interessanti. La più eclatante di tutte è il ritiro della patente per 3 anni a chi viene trovato alla guida con tracce di stupefacenti nell’organismo; o meglio, la riforma della norma attualmente in vigore sul tema dello stato di alterazione alla guida. Una norma così rozza che mette in chiara luce l’anima della destra, anche di quella oggi al governo: a tutto ciò che non gli va bene risponde “e io ti meno”, per legge.

Finora veniva ritirata la patente solo se trovati in stato di alterazione da stupefacenti alla guida. Con la riforma viene ritirata comunque. Le tracce di Thc e altre sostanze alteranti sono rilevabili nell’organismo a distanza di giorni, da ciò deriva che se nel fine settimana o quando ti pare ti sei fatto una canna e giorni dopo ti metti alla guida lucido come un giudice di Cassazione, se fermato e testato perdi la patente per tre anni. Messa così sembra pensata da Anton Ego, lo spietato critico gastronomico di “Ratatouille”, a cui non va mai bene niente perché la realtà non si adatta alla venerazione delle sue idee.

In Italia hanno fumato cannabis almeno una volta l’anno 6 milioni di persone, numero che aumenta all’aumentare della pratica (dati Osservatorio Ue delle droghe e tossicodipendenze, 2021), ma questo non è il punto: lo è invece la faciloneria con cui il promotore della riforma, Matteo Salvini, si è relazionato con il tema, creando l’ennesima mostruosità giuridica a fini propagandistici, neanche si trattasse di un qualsiasi campo di concentramento in Albania.

L’intero impianto della riforma del codice è improntato a questo: poco importano le conseguenze per la collettività dell’impatto delle sue idee, mirate alla costruzione di consenso sulla sua figura di leader politico brusco e fuori dal buonismo, alla Putin o Trump. L’importante è prendere la scena, che come vediamo tutti gli sta sfuggendo di mano visto che sta portando il suo partito ai minimi (circa il 5% oggi). Il giorno dopo l’approvazione in Senato del nuovo codice anche dalla sua base i messaggi erano “non ti votiamo più”, in relazione all’alta novità del ritiro breve della patente in vari casi. In una recente trasmissione su Radio 1 Rai a chi gli chiedeva se non avesse paura di perdere consenso ha risposto “me ne farò una ragione”. Però ha mantenuto almeno una promessa: taglio delle accise per semplice impedimento all’acquisto di carburanti. Geniale, noi buonisti non potevamo neanche pensarci.

La lezione di Valencia: ogni destra mette tutti in pericolo di morte

Ci sono mille motivi per avere in orrore le destre e le loro azioni politiche in caso prendano il potere ma una su tutte adesso ha preso il sopravvento, dopo l’apocalisse che si è abbattuta su Valencia: una destra al governo potrebbe portare alla morte. Quello che è accaduto in Spagna è il risultato diretto del negazionismo climatico proprio dei cosiddetti moderati, che io considero i veri estremisti, accoppiati ai fascisti di Vox con il loro portato di doping tossico che amplifica enormemente le conseguenze letali di azioni dissennate. Ne ha parlato per primo Giuseppe Grezzi, ex assessore valenciano nato in Italia e principale autore della trasformazione di Valencia in città ciclabile e pedonale. Conosco e apprezzo Grezzi da molti anni per la sua visione moderna di cosa debba essere una città e per le sue capacità, insieme ai suoi compagni di Compromis, di sobbarcarsi una mole enorme di lavoro per convincere i valenciani che una città zeppa di auto fa male a tutti. Ci è riuscito ed è stato al governo cittadino per due mandati, poi Compromis e alleati del Psoe e Podemos hanno perso contro il Partito Popolare appoggiato da Vox. Il loro primo atto, ha raccontato Grezzi, è stato quello di “eliminare in pompa magna l’Unidad Valenciana de Emergencia, l’unità di crisi che avevamo costituito noi proprio per queste situazioni”, sostenendo che fosse uno spreco di soldi. La destra ha preferito investire  17 milioni di € nelle corride. Non contenti, hanno anche smantellato l’Agenzia valenciana per il cambiamento climatico, hanno tagliato le tasse ai più abbienti perdendo 495 mln € di introiti salvo poi chiedere una raccolta di fondi ai cittadini per fronteggiare la catastrofe.

Io questo lo chiamo essere nemici dell’umanità, volenterosi carnefici degli amministrati, in definitiva degli assassini potenziali con l’aggravante dell’ignoranza. Sappiamo bene che le destre sono intrise di cultura di morte, ricordate gli Arditi mussoliniani, e quando va bene si avviluppano  in roboanti proclami su dio patria e famiglia per giustificare repressioni e atti di guerra.
Nel nostro piccolo temiamo fortemente che da quella fanghiglia mentale poi tradotta in conseguenze letali prenda davvero corpo il nuovo Codice della Strada, da noi attivisti ribattezzato Codice della Strage, testardamente voluto da Salvini e composto da pareri che sono tutti in senso contrario al riequilibrio delle modalità di trasporto, annullando le conquiste per la mobilità attiva, deprimendo scelte di riassetto urbanistico in tal senso e ridando tutta la strada alle automobili private. Si tratta di politiche disegnate per favorire la propria parte proprio in un ambito -quello stradale- che per eccellenza appartiene a tutti e ciascuno, nessuno escluso: totalmente e inderogabilmente orizzontale e popolare. Ma da Valencia veniamo anche a sapere che il governatore, Mazon, pur negando l’allarme ha mandato a casa i dipendenti della Diputacion Valencia sei ore prima del disastro. Lo sapeva e ha taciuto ma ha favorito la sua gente. Questo è un tratto comune a ogni destra ed è l’ennesima prova che quando si tratta di bene comune bisogna fare di tutto per impedire di dare potere alle destre. Da noi, invece di mettere a punto un piano preciso e coerente per bloccare le destre brave solo a conquistare il potere malgrado siano minoranza, le opposizioni litigano sulla scelta tra ballare il minuetto o la quadriglia, e si accapigliano sulla sala da affittare per danzare. Noi, qui a terra, restiamo in pericolo di morte.

Imperfect (hot) Days

Qualche giorno fa nella mia via si è verificato un black out elettrico lunghissimo, uno dei maggiori che ricordi: più di 5 ore senza corrente. Era il primo dei giorni infuocati che stiamo vivendo in questo periodo, e il giorno dopo ho letto che anche a Milano si erano verificati fenomeni simili; immagino che anche il altre zone d’Italia ce ne siano stati. Ho immediatamente individuato la causa all’accensione contemporanea dei condizionatori intorno a me, cosa che poi mi è stata confermata dai tecnici dell’Areti venuti ad aggiustare la centralina locale, e senza che glielo suggerissi io.
In casa non ho condizionatori ma ventole da soffitto, tre molto grandi (semplici, eleganti, silenziosissime; e poco costose), una più piccola: ci siamo organizzati così proprio per non partecipare allo spreco di energia: ventole, ombreggiamento ragionato e creazione di correnti d’aria bastano anche in queste temperature fuori norma. Naturalmente senza corrente le ventole non funzionano e ci siamo arrangiati con docce, ombreggiamento e correnti d’aria. Ma abbiamo comunque pagato lo scotto delle decisioni altrui, prese immagino senza alcuno sforzo di cercare un’alternativa meno impattante e forse anche grazie al bonus condizionatori ancora in atto (recuperi di quanto speso dal 50 al 65%). Non mi risulta che ci siano bonus ventole.

Trovo delle forti somiglianza con quello che accade in strada nel paese subalpino che si gloria di essere bello. Gli spostamenti personali si effettuano essenzialmente su autovetture di proprietà che generalmente ospitano solo chi le guida malgrado occupino uno spazio una decina di volte maggiore di quello di un corpo umano, pesino parecchie decine di volte di più e impattino negativamente su ogni aspetto della vita collettiva in strada. Ma, al parti dell’accensione di un condizionatore quando si vuole il fresco, l’umano standard non si dà pensieri e accende motori estremamente potenti per incolonnarsi collettivamente in strada.

Sono fenomeni identici e nascono da quella che definisco “l’inerzia della normalità”. La migliore definizione di normalità che ho trovato finora appartiene a una ricercatrice tedesca, ed è “ciò che non ha bisogno di spiegazioni”.

Decenni di marketing del sistema economico oggi dominante hanno portato a questo tipo di normalità centrata sull’interesse personale nascondendo con la massima cura i riflessi negativi sulla collettività. L’eterna altalena tra egoismo e altruismo, entrambi in antropologia strumenti che hanno consentito li sviluppo della nostra specie.

All”atto pratico, per chi vuole avere una vita migliore di quella proposta dal marketing, l’effetto è frustrante: tu cambi personalmente modo di stare al mondo ma se quasi tutti giocano al ribasso, vai in basso anche tu: non si scappa, se non a tratti.

Va spiegato perché gente come me -che sta aumentando, ma poco- fa scelte diverse, dunque “anormali”. Generalmente la spiego puntando sulla profondità e l’intensità del gusto di fare questo o quello, e uso l’esempio del pane fatto in casa: il suo odore non può essere comprato in nessun luogo, ed è obiettivamente gustoso avere l’odore del pane in casa. Così anche per l’uso di bici più treno, dove qualcuno guida e tu sei con il tuo mezzo dentro una carrozza a leggere, dormire o chiacchierare. Ma, come nel proverbio, se il cavallo non beve non c’è niente da fare.

In futuro proverò a consigliare la visione di “Perfect Days” di Wenders per provare a far capire quanto imperfect siano i nostri days collettivi: è un film sulla semplicità e del gusto di vivere per vivere.

Dare dignità estetica all’orribile Verdona Pininfarina

Fin dall’inizio, circa nel 2001, della mia personale ricerca sulla bici ho avuto un punto focale irrinunciabile: ridare dignità al mezzo. Magari qualcuno non lo ricorda ma a quei tempi la bicicletta era considerato un mezzo da poveracci, in qualche sacca poco attenta della società lo è ancora oggi ma ormai il valico è superato. Allora era così. Per anni mi sono ingegnato a organizzare mostre con le mie ri-costruzioni, basate sulla de-costruzione: mettere a nudo il più possibile le ossa della bici e al massimo fare degli interventi cromatici inusuali, spesso azzardati. Un gioco ben riuscito che mi ha portato a voler costruire telai anche questi a volte azzardati ma comunque semplici e soprattutto attraenti.

Ho sviluppato però uno snobismo meccanico in qualche modo inaccettabile e quasi patologico, poco adatto al mezzo popolare per eccellenza. Consapevole di questo Riccardo, un caro quanto sadico amico, si presentò da me con un telaio della famigerata Verdona, la Mtb anni ’90 firmata da Pininfarina per la Esso, sfidandomi a renderla non dico bella (lui disse così, in realtà) ma almeno accettabile (questo fu il mio rilancio). Si era ai tempi della pandemia. Il telaio è rimasto accatastato su altre cianfrusaglie per tre anni, ogni tanto lo guardavo e distoglievo quasi subito gli occhi.
Sicuramente sapete di che oggetto parlo: quella bici presente in ogni angolo d’Italia dal color verde raganella, si può trovare in balconi, cortili, fermate del tpl, sotto i ponti, ovunque. Generalmente abbandonate. Centinaia di migliaia di esemplari presi con i punti benzina e una modesta cifra in lire: una combinazione tossica nata dal connubio tra il più quotato carrozziere d’Italia, che ha vestito decine di Ferrari, e l’azienda petrolifera più grande del mondo. Il risultato è stato un oggetto inguardabile, anche se robusto e a suo modo ben costruito. Il telaio -taglia unica- è uno scatolato d’alluminio di sezione ovale e a forma di Y sbracata, molto grosso, che contrasta con forcella e posteriore in tubazioni di diametro inferiore. La componentistica è entry level ma funzionale: ogni pezzo, osservato singolarmente, sembra normale. L’insieme assemblato è un pugno nell’occhio, con l’aggravante finale del colore osceno.

Ho sabbiato via il colore, lucidato il telaio e sostituito la forcella con una molto imponente che riequilibra il rapporto con le dimensioni della Y, più un’impostazione gravel con piega, leve, monocorona e meccanismi di qualità. La chicca è il faretto anteriore montato molto alto, a mo’ di café racer. Di una rigidità assoluta ma piacevole, al netto del peso. Il fatto che riceva apprezzamenti, anche superlativi, mi insospettisce e mi fa ripiombare nello snobismo: quanto effettivamente è diventata accettabile e quanto, invece, ancora c’è incultura del mezzo bici?
Poi penso che in fin dei conti è una bici che ha trovato un senso, pedalo via e me la godo parecchio. Anche per lo sberleffo fatto, in primo luogo a me.