Costretti a manifestare da oltre dieci anni: zero esiti

La morte iniqua di Veronica, la giovane donna milanese da poco madre, sotto le ruote di un camion in piena Milano ha innescato la reazione di chi si sposta in bici in quella città. E cadono le braccia a chi sa e ricorda che proprio un fatto analogo a Londra nel 2012 innescò la rivolta dei ciclisti urbani che portò all’inizio di un cambiamento stradale in Uk ancora in atto. La campagna Save Our Cyclist fu adottata anche in Italia, traducendola in Salvaiciclisti, movimento nato in rete grazie al blogger Paolo Pinzuti che chiamò a raccolta gli altri blogger attivi nella ciclabilità: rispondemmo in 38 lanciando la campagna a febbraio e in un crescendo parossistico riuscimmo a portare decine di migliaia di manifestanti lungo via dei Fori Imperiali a Roma il 28 aprile di quell’anno: mai successo prima in Europa e il solo esempio che mi viene in mente è la campagna olandese negli anni ’70 Stop de kindermoord. A iniziare il movimento che trasformò l’Olanda fu un il padre di un bimbo ucciso da un automobilista, che per caso era anche giornalista e pubblicò ciò che pensava proprio con quel titolo, Fermare l’uccisione dei bambini.

E ricadono le braccia a notare che la prima campagna stampa in Italia a sollevare il problema che per alcuni di noi è così evidente da diventare per ciò solo invisibile viene dal Corriere della Sera proprio in seguito al trauma indicibile seguito all’uccisione di Francesco Valdiserri, che era figlio di Luca e Paola, giornalisti di quella testata. In qualche modo anche da noi a volte si riscopre la missione di sorvegliante etico del giornalismo, e come in Olanda e in genere nelle cose umane spesso gli abissi del dolore riescono a innescare una reazione di segno opposto. Solo che da noi stiamo reagendo -forse- mezzo secolo dopo gli olandesi. Si badi bene: i Paesi Bassi degli anni ’70 avevano la stessa identica situazione stradale del resto d’Europa, caos di lamiere, morti, feriti, congestione. Inutile dire che oggi sono il faro della vivibilità negli spazi collettivi.

Noi abbiamo reagito dal basso nel 2012: e come sempre in Italia tante pacche sulle spalle, molti articoli, tanta visibiltà e un italianissimo nulla di fatto, anzi la situazione è peggiorata, la guida si è incrudelita -la mia è una stima esperienziale, a occhio- dopo la pandemia. A Roma siamo già arrivati a 20 morti uccisi da veicolarità dall’inizio dell’anno e siamo solo a febbraio.
La manifestazione di Milano a piazzale Loreto ha visto secondo gli organizzatori circa tremila persone sdraiarsi sul selciato, esporre cartelli autoprodotti. Sono state citate le vittime di violenza stradale ed è stato scandito più volte “Basta morti in strada”, slogan che ripetiamo dai tempi che sopra ho ricordato. Apparentemente invano. Giovedì 9 febbraio a Genova verrà presentato il libro “Le auto non impazziscono. Il valore delle parole, la narrazione sbagliata degli scontri stradali”, di Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, diciassettenne ucciso da un automobilista, con cui si prova almeno a cambiare la percezione degli esiti della violenza stradale nei media, mettendo in luce anche il ruolo nefasto della pubblicità delle auto. Leggere ancora oggi sui giornali italiani parole come “spettacolare incidente” fa venire voglia di scappare da questo inerte paese che continua a masticare i suoi figli in nome di una malintesa libertà di movimento personale, che in realtà è asservimento a un’economia malata e mortale. In Olanda sono riusciti a ribaltare lo stato delle cose, ma loro sono calvinisti e nella loro cultura il favore di Dio si ottiene in corso di vita, non alla fine davanti al confessore.

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