La lezione della mosca

C’è un momento esatto a cui faccio risalire la mia ricerca sulla semplicità come pratica, atteggiamento, lente di lettura, strumento di vita, e questo momento coinvolge naturalmente una bicicletta e, abbastanza sorprendentemente, una mosca.

Nella seconda metà degli anni ’90 sono andato in Tunisia per un viaggetto di un paio di settimane senza programmi precisi ma comunque verso le propaggini settentrionali del grande deserto africano, giusto per vedere un po’ com’era. La mia bici di allora era una AlAn da ciclocross un po’ fuori misura per me ma comunque mi ci trovavo bene, e ancora non ero così fanatico per la precisione delle misure come oggi: un po’ troppo alta ma in ogni caso la canna centrale, che oggi so chiamarsi tubo orizzontale, non mi sbatteva (troppo) sull’inguine scendendo dal sellino, quindi andava bene. Quella bici mi fu poi rubata per mia colpa, avendola lasciata appoggiata al muro mentre entravo in un negozio dove c’era un’offerta di calzini di spugna neri; un gran dispiacere ma in fin dei conti mica tanto, visto che la bici era ormai storta dopo un frontale con una grossa moto da enduro che mi ha lasciato acciaccato per un po’.

Tornando alla Tunisia e al momento della mosca, quel giorno di giugno partivo da Matmata verso Douz. Tutti al mondo conoscono Matmata, perché fu un set di Guerre Stellari, cioè la casa di Luke Skywalker quando ancora viveva con gli zii. Avrei finito la giornata a Douz, all’inizio della grande distesa salata (dunque bianca, accecante) dello Chott el Jerid; la Michelin mi indicava che il percorso era uno sterrato, quindi forse avrei dovuto dormire da qualche parte lungo i poco meno di 100 km di percorso. Salvo poi scoprire che giusto l’anno prima l’avevano asfaltato e il viaggio, che mi aspettavo lento e faticoso, si è rivelato un lampo, complice anche un vento furioso da dietro che per un tratto mi ha fatto andare a vela, avendo improvvisato uno spinnaker con il pareo legato al collo e al manubrio. Poi mi sono stufato di stare fermo e sono tornato a pedalare, velocità tra i 30 e 35 kmh, cosa che con la bici carica non è affatto usuale.

E’ a quel punto, circa a metà del percorso, che appare la dannata mosca. Si piazza nei dintorni del mio viso e non se ne va. La scacciavo di continuo, tornava, a volte non m’infastidiva ma altre si metteva nei dintorni delle narici, più spesso sotto il cappello nei pressi della fronte e delle tempie. Ci ho convissuto un’oretta scarsa, dunque una trentina di chilometri. All’improvviso ho capito: c’è un gran caldo, cerca ombra e umido. Levo il cappello e lo metto in tasca, la mosca scompare senza mai più tornare.

Semplicissimo ma ci ho messo un’ora a capirlo, un vero fessacchiotto. Penso spesso a quel momento, soprattutto quando mi trovo di fronte a scelte.

Ci penso anche quando guardo, sconcertato, la quotidiana fiumana di automobili che tracima nella mia città.

Roma, in questi mesi, è seppellita da cantieri in contemporanea. Al centro c’è la combinazione, geniale, del cantiere per la metro C a piazza Venezia e quello per il Giubileo davanti a S.Pietro in sponda destra Tevere: due punti nevralgici per il cosiddetto traffico, gli effetti si riverberano sull’intera città. Un solo giorno di questo inferno basterebbe per farti decidere di rottamare l’auto ma niente: imperterriti continuano a non cambiare modalità. Da tempo ho eliminato anche questa mosca dalla mia vita: il cappello che ho alzato è la scelta di muovermi in bici e non su mezzi a motore. Cosa manchi ad altri per realizzarlo mi risulta ormai incomprensibile.

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