Tutta quest’enfasi sul fatto che Ignazio Marino vada in bicicletta mi ha davvero stufato. Calcare la mano sul sindaco in bici, pratica ormai presente in tutti gli articoli che riguardano il nuovo amministratore del Campidoglio, è di un provincialismo sconcertante. E mi dà la misura di quanto la società romana sia appunto provinciale, incolore, meschinella. Mi ricorda un po’ quei paesani da cui fuggì la povera Emma Bovary, stremata dalla pochezza non solo del marito ma anche dei suoi contemporanei locali.
Ecco, un paesotto: questo mi sembra la Roma che ammicca e ghigna solo perché il sindaco va in bici (a proposito, pedala bene, non arranca come certi indossatori di pigiama sportivo domenicali che pedalano di tallone nei parchi o sulle ciclabili sabato o domenica), cosa assolutamente normale in tre quarti d’Europa, se non di più. E non solo cittadini senza particolare rilievo pubblico, ma anche primi ministri, donne o uomini coronati e dunque di alto rilievo pubblico (di cui poi si va a spiare la vita privata nei rotocalchi popolari, da parte degli stessi che ghignano solo perché un sindaco va in bici). Insomma, Marino fa una cosa normalissima, da uomo contemporaneo: è la romanità a essere invece nel passato. Fortunatamente a Roma siamo sempre di più a usare abitualmente la bici come mezzo di trasporto: da una quota irrisoria sul totale degli spostamenti quotidiani, lo 0,4% due anni fa, siamo passati a una quota marginale ma mica tanto, per essere Roma quel gran casino che è: il 4%, e cresce ancora. Stai a vedere che tra qualche anno saremo almeno un 25% buono?
Nel frattempo, commentatori panzuti e media sagaci continueranno a sottolineare la buffa abitudine del sindaco, lasciando intendere chissà quale piacionismo o stranezza (e qui voglio ricordare l’epiteto di marziano lanciato dal povero Alemanno, pace all’anima sua) mentre invece è la normalità assoluta in posti che ci hanno dato almeno tre giri di pista nella vivibilità urbana, cosa di cui noi eravamo campioni e ora invece siamo delle schiappe.