L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifàr: era una costante giaculatoria di Bartali ai gregari, alla squadra, al mondo. Stranamente è stato questo ritornello del Ginettaccio ad accompagnarmi durante la Ciclostaffetta per Riace, nel mio caso circa 400 km e otto giorni di pedalata in gruppo per dare supporto al Nobel per la Pace da assegnare al paese jonico. E al suo attuale non sindaco.
Quando pedalo uso dei pensieri ossessivi e canzoni che fischietto per darmi ritmo. In viaggio il ritmo è tutto, se sei in bici; il fischiettio compulsivo è una mia caratteristica di cui non sono consapevole. Il pensiero è per lo più occasionale.
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Niente mi annoia più dei resoconti di viaggio, quindi non sorprendetevi se non seguirò la classica linea “andato da qui a lì, tot chilometri, tot media, che paesaggi/tramonti meravigliosi” e via sbadigliando. Solo alla fine ho realizzato perché mi galleggiasse in testa la litania bartaliana: abbiamo attraversato un bel pezzo d’Italia con un’idea semplice in testa, realizzata con mezzi e risorse semplici, lasciando scorrere attorno a noi un paese inutilmente complesso e incattivito a partire dalla strada e dal modo di usarla; fino al pestaggio, in questo caso giudiziario e poi politico, di un paesino che ha osato proporre un modello alternativo alle relazioni umane tra estranei. Una divaricazione che sento sempre più forte.
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Voi volete sapere dell’incontro con Mimmo Lucano: dovrete aspettare righe successive. Anche se formalmente la staffetta, che in massima parte è stato il dolce scorrere delle stesse otto persone a tratti accompagnate da attivisti locali, arrivava a Riace, è stato al quarto piano di un anonimo stabile di Caulonia Marina che secondo me il cerchio si è chiuso, in quell’ora circa di straniante incontro con Lucano.
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Sono partito da Napoli, raggiungendo il gruppo partito il giorno prima da Roma: una cinquantina di persone che si erano date appuntamento alle 6 alle spalle della stazione Tiburtina, dove tra uno sgombero e l’altro il Baobab prova a dare assistenza ai migranti. Partenza a cui ho partecipato quasi simbolicamente, accompagnando il gruppone fino alle Fosse Ardeatine.
Avevo diversi interessi non del tutto concordanti, in questo viaggio. E neanche sapevo se l’avrei fatto tutto o no. Non sono mai stato in viaggio in bici in inverno; viaggio sempre da solo in bici, se si eccettua un’incursione in IsraelePalestina con mio fratello che proprio estraneo non è e due transumanze a pedali di due giorni con i Tetes de Bois. Per me una prima assoluta.
E naturalmente l’esigenza di mostrare reazione a un’ingiustizia. Di più: al pestaggio morale cui accennavo sopra. In me tutto mischiato insieme, egoismo e altruismo.
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Otto persone più scombicchierate di noi non si possono immaginare. Tre ragazze sotto i 30 anni, cinque adulti molto adulti (ero il meno anziano, con i miei 55 anni); le ragazze, le nostre leader, erano un team; noi cinque adulti diversissimi e ognuno con le sue marcate caratteristiche. Con un po’ d’impegno è andato tutto bene, probabilmente perché l’aspetto etico della carovana metteva in un cassetto qualsiasi differenza. Noi anziani e una ragazza avevamo una certa dimestichezza con la fatica del pedalare carichi, le altre due hanno imparato strada facendo. Tutti avevamo in testa, nei momenti più aspri, ciò che devono vivere quei poveracci che scampano al Sahara, alla Libia, alla Sirte per essere poi presi a schiaffi dall’Italia di oggi: vi assicuro che la fatica s’eclissa, travolta dalla vergogna.
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Divaricazione tra Italie, dicevo. Tra i messaggi degli haters sui social, scarsi in verità ma presenti, battute di scarsa etica sentite ogni tanto e l’odio stradale diffuso, abbiamo tuttavia raccolto segnali positivi da chi ci aspettava nelle tappe calabre che avevano organizzato un’accoglienza stanziale o itinerante. Dal gruppo sportivo dei Terùn di Scalea (scritto sulla maglietta, dei geni), che ci ha fatto tirare fuori la lingua e arrivare con un’ora di anticipo a Diamante, ai soci della Fiab Cosenza che hanno invece adottato lo stile cicloturistico (ovvero salite e percorsi lunghi per evitare strade trafficate), abbiamo cominciato a toccare con mano quella parte d’Italia che poi si è ritrovata a Milano il 2 marzo. Lucania superata d’un lampo, Campania, da Salerno in poi, non pervenuta e non ho idea del perché. A Soverato il sindaco ci ha offerto il pranzo.
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“E i buoni cosa fanno?” è la domanda di un bambino di 4 anni, riportata da sua madre durante una bella assemblea a Paola, organizzata da diverse associazioni locali. Il bimbo stava guardando con i genitori un telegiornale, e dopo la consueta sequela di brutture se n’esce così. Secondo me deve diventare il titolo delle future iniziative.
Segnalo che a Paola è ancora attivo un mulino del 1400, monumento storico che ancora dà farine molite a pietra con le macine mosse dal fiume; un kg di grano duro Senatore Cappelli 1,60€, viene un pane da ovazione.
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L’Italia è un paese di lamiere. Un paese seppellito sotto milioni di macchine. Che siano Napoli, Nicastro, Vigliatore, Prato, Porto Garibaldi, Brescia: è così ovunque. Scendendo da Cava dei Tirreni verso Salerno abbiamo trovato chilometri di fila nei due sensi. Ho fotografato una costruzione meravigliosa a ciglio strada, stupito che quei beoti fossero con gli occhi fissi sul paraurti davanti e non godessero di quella gioia. Si trattava, ho saputo dopo, della fabbrica Solimene, unica opera in Italia di Paolo Soleri, padre dell’architettura organica. Dove le auto non sono in fila corrono al massimo della possibilità offerte dal motore e dalle traiettorie. L’accatastamento automobilistico a più livelli o il suo scorrere inferocito è ovunque, e solo percorrendo vie impervie siamo sfuggiti alla maledetta normalità. Il Cilento e la costa lucana, sbalorditivi, sono preservati dal fatto che l’autostrada va per monti e non scende in costa.
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Ora parlo di Mimmo, o Mimi’ come lo chiamano i suoi. Dopo un mesto ingresso a Riace, accolti da chi ancora vuole credere che non sia tutto finito, abbiamo consegnato la bandiera della Ciclostaffetta nell’aula del comune, con qualche decina di persone contente -come noi- che fossimo lì. L’atmosfera era di una comunità offesa; orgogliosa ma ferita. Contusa. Sono tosti e ne usciranno, ma non senza l’abbraccio di tutti. Noi glielo abbiamo portato.
Le bici hanno dormito nella sala consiliare, abbiamo trasferito le sacche in una palazzina dove prima venivano ospitate le minori da ogni dove. Ora vuoto.
Poi siamo andati da Lucano, in un corteo diverse macchine. Mimmo vive in una casa in prestito a Caulonia Marina. Non ha riscaldamento, nessuna delle luci ai soffitti ha il paralume, filo e lampadina e basta. Alcune persiane sono rotte. Dovevamo essere in pochi e ci siamo trovati in circa 30. Aveva approntato un piccolo ricevimento, paste vino e liquori. Gli ho finito una bottiglia già iniziata di rosso della casa ma in cambio gli abbiamo consegnato un rosso Piceno, la Staffetta della Brigata Preneste portato nelle borse fin da Roma. Mimmo a volte s’astraeva, ogni tanto aveva fiammate tribunizie ma poi tornava rinchiuso in sé. Alcuni dei locali facevano comizi o -peggio- provavano a convincerlo di fare il leader di una nuova sinistra. Gli ho chiesto a voce bassa “ma a te va di fare ‘sta cosa?”, ha scosso la testa seccamente. Incarna lo spirito del suo paese: contuso, da un sistema più grande e vigliacco. Sistema teppista, come i tanti che menano i pochi.
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Siamo tornati verso nord con vari treni regionali pensando a come continuare a supportare Riace e la sua intuizione. Una delle ipotesi è una raccolta fondi per la neonata fondazione “E’ stato il vento”, che punta a continuare quell’efficace esperienza, chiedendo contributi volontari; un’altra è quella di ottenere la cittadinanza onoraria di Riace, sempre con contributo volontario, dopo aver firmato un atto di adesione ai valori messi in luce da Lucano. Stiamo organizzando una serie di incontri pubblici a Roma per parlarne, il primo il 16 marzo a via Ostiense 152b.